GranMilano
Dentro all'aula 21, dove si studia il personal branding
Da un esperimento didattico in Statale un metodo per il mercato del lavoro
Erika un giorno rispose a un annuncio per una posizione di assistente di direzione. Al colloquio incontrò una donna di mezza età dall’aspetto serioso seduta in un ufficio in mezzo a tante carte e con una solo foto che ritraeva una bambina intenta a danzare. La donna cominciò a fare tante domande a Erika che provò sempre a rispondere con sincerità visto che la posizione le interessava molto. Ma un certo punto fu spiazzata da un quesito: “Che cosa vuol dire per lei danzare?”. La ragazza diede una risposta spontanea: “Danzare per me significa essere libera di volare con il mio corpo”. Ma d’improvviso arrivò la doccia fredda: “Quindi lei si sente libera nel volare con abiti succinti intorno a un palo?”. La donna, prima del colloquio, aveva notato una foto online di Erika in cui si esibiva in un esercizio di pole dance, attività che svolgeva con tanta passione e impegno ma che, evidentemente, era stata equivocata dalla sua selezionatrice che la liquidò: “Le faremo sapere”. Erika tornò a casa amareggiata ma mise subito mano ai suoi social network per cambiare le impostazioni di privacy delle foto e dei contenuti postati. Non voleva mai più trovarsi nella condizione di giustificare una passione mettendo a rischio un’opportunità lavorativa. Oggi Erika, 27 anni, vive a Londra, insegna pole dance, dopo aver vinto alcune competizioni a livello europeo, ed è l’assistente personale del ceo di una multinazionale. E’ lei stessa a raccontare la sua storia nel libro “La persona giusta al posto giusto” di Daniele Salvaggio, edito da Corbaccio, che racchiude sei anni di esperienze del laboratorio sul “personal branding” dell’Università Statale di Milano, di cui è stato ideatore e coordinatore.
“In quest’arco di tempo avrò incontrato più di 600 studenti e con tanti di loro ci sentiamo spesso – racconta al Foglio Salvaggio, fondatore di Imprese di Talento – Quando con la professoressa Luisa Leonini abbiamo fatto nascere il laboratorio nell’aula 21 era un esperimento per stimolare gli studenti del corso di laurea in comunicazione pubblica e d’impresa. In seguito, viste le numerose richieste di partecipazione lo abbiamo confermato e condiviso l’idea di rendere pubblica questa esperienza che vuole sensibilizzare i giovani e tutte le persone che hanno bisogno di ricollocarsi nel mercato del lavoro sull’importanza del brand personale”. Con il lockdown, anche qui, a febbraio sono cominciate le lezioni a distanza. “All’inizio ero preoccupato su come sarebbe potuto essere portare avanti da remoto un laboratorio didattico. Ma sono rimasto sorpreso dalla spontaneità e dal grande trasporto emotivo degli studenti. Questo mi ha fatto pensare a quanto i giovani abbiano voglia di esprimere i propri pensieri, di sperimentare le proprie attitudini, di capire come migliorarsi. Forse hanno bisogno solo di un’occasione per farlo”.
Uno che conosce i giovani è sicuramente Linus, conduttore e direttore artistico di Radio Deejay dal 1996, il quale, nello scrivere la prefazione del libro di Salvaggio, ha raccontato come 25 anni fa si sia trovato di colpo e inaspettatamente a prendere le redini di un’emittente che era di grande successo, ma aveva un claim molto chiaro: poche parole e tanta musica. “Non avevo idea di dove l’avrei portata – confessa Linus – e certamente non pensavo di costruirne una diametralmente opposta. Ma è andata così, perché così è la radio che io amo fare. Perché noi facciamo quello che siamo”. Linus come Erika hanno trovato la propria strada essendo se stessi ed è questa l’esortazione di fondo che si coglie in tutto il percorso di personal branding che il laboratorio dell’università milanese ha costruito nella convinzione che oggi a farla da padrone nei colloqui di lavoro sono soprattutto le cosiddette “soft skill”, ovvero motivazione, flessibilità, proattività, curiosità, l’approccio alle sfide e al cambiamento, caratteristiche che non si insegnano nelle scuole e nelle università ma fanno parte del patrimonio personale.
“Anche se può sembrare strano vista la loro propensione a stare sui social, i giovani fanno fatica a raccontarsi – prosegue Salvaggio – Sono molto presenti su Instagram e TikToc con foto e storie e poco su Linkedin, dove le aziende vanno più a caccia di talenti. Per questo hanno bisogno di acquisire un metodo che non equivale semplicemente a vendere la propria immagine, ma vuol dire partire da una messa a fuoco dei propri punti di forza e saperli comunicare trasmettendo passione ma anche controllo. E questo approccio dovrebbe essere adottato anche dalle persone più mature che devono ricollocarsi, diventate numerose con l’emergenza Covid”. Accade, però, sempre più spesso che siano i giovani, e non solo, a scegliersi l’azienda e non viceversa, come spiega nella sua testimonianza Mario Ceresa, amministratore delegato di Randstand Italia, branch della multinazionale olandese di ricerca, selezione e formazione di risorse umane. “Dalle nostre analisi emerge chiaramente che attrarre e trattenere i migliori talenti sul mercato non è più soltanto una priorità per le aziende, ma una vera e propria emergenza. Per il 76 per cento dei professionisti che reclutano personale, infatti, la scarsità di talenti è una preoccupazione cronica e così si sta diffondendo una strategia di reclutamento che fa leva su un ambiente di lavoro confortevole e inclusivo, oltre che su retribuzioni e benefit interessanti”. Nell’ultimo anno il 17 per cento degli italiani (switcher) ha iniziato a lavorare per un’altra azienda, l’83 per cento non ha cambiato lavoro (stayer) e il 28 per cento di questi ultimi (intender) ha intenzione di farlo nei prossimi dodici mesi. Per tutti l’equilibrio tra vita privata e lavoro è al primo posto.