GranMilano
Divisionisti per le prossime amministrative a Milano
Destra in tilt e riformisti con più sigle che voti. I calendiani vanno da soli. Sala ringrazia
In bilico, o come direbbe Montale: a mezza via. Incompiute meneghine peggio della ciclabile in Corso Buenos Aires, dipinta e ora popolata di alberi in vaso, manco i ciclisti dovessero andare a funghi e la viabilità a ramengo. Eppure la politica milanese pare un po’ questo: gente che va a zonzo, eterna rivoluzione incompiuta, lasciando deserto il laboratorio politico di Milano (etimologicamente, posto dove si lavora: stiamo freschi). Politica tattica, la potremmo chiamare, facendo il verso a certa urbanistica cittadina. Si prende un pennello e si tratteggia una linea: di qui una carreggiata, di là una ciclabile. Di qui i riformisti, di là i verdeggianti à la Sala, di là ancora i democratici un po’ afoni. Sulla questione della lista liberal già si è già detto troppo: perché ad oggi c’è solo un’area in cui tutti dicono le stesse cose ma per qualche motivo (niente affatto misterioso) non stanno insieme. Non importa che, consultati singolarmente, sembrino tutti d’accordo: pare la guerra delle mozioni di un congresso della Dc, sono tutti d’accordo nello stare uniti ma divisi, vicini ma lontani.
Un po’ di nomi e cognomi. Alleanza civica di Franco D’Alfonso e la compagine (fortissima dal punto di vista di qualità e cultura) di Daniela Mainini vorrebbero essere i grandi federatori delle istanze riformiste, ma senza perdere il proprio nome e la propria identità in una lista unitaria. Intanto Marco Fumagalli, eletto in Consiglio comunale proprio con i civici, va a capeggiare la lista Milano in salute: puro calcolo elettorale. Con i riformisti, tutti insieme o divisi, sarebbe rimasto fuori dal Consiglio, mentre gli basta l’1,5 per cento di Milano in salute per rientrarvi. Calcolo matematico corretto, niente da dire, anche se fa incazzare non poco D’Alfonso ( direbbe Lenin: divisionismo malattia infantile del riformismo).
Poi ci sono Italia Viva e Azione. La prima è ben contenta di potersi associare, purché si associno tutti. I secondi invece vogliono a tutti i costi avere una lista propria, e Calenda dopo aver detto chiaro e tondo in un webinar che ci vorrebbe un’opzione unitaria, ora sta silente malgrado le mille sollecitazioni. Sollecitazioni in primis di Gianfranco Librandi, leader di una potenziale lista sul mondo del lavoro.
Quindi? Quattro formazioni per un totale (se va bene) del 10 per cento, con la probabilità – confermata da Beppe Sala – che ci saranno da una parte Italia Viva, Civici e lista Librandi, e dall’altra gli azionisti di Calenda. A non leggere le sigle, parrebbero gli stessi scazzi della sinistra radicale del Movimento Milano 2030, perché in fondo hanno esattamente la stessa matrice. Ma fin qui, è roba nota. Quel che dovrebbe essere altrettanto noto ma viene bellamente ignorato è che Beppe Sala, ogni giorno che passa e vista la bonaccia del centrodestra, può tranquillamente far senza questi quattro riformisti e della terza gamba (rotta), nella sua traversata tranquillissima verso il secondo mandato.
Ad un certo momento, i voti moderati saranno naturalmente convogliati su di lui. Sempre là devono fluire i voti degli elettori riformisti, sul candidato Beppe Sala. Il quale ha anche una certezza: se già litigano prima, figurarsi dopo in Consiglio. Divide et impera, ma qui non serve manco adoperarsi. E il centrodestra preso da mille summit? La perdita di tempo è talmente marcata che ormai tutti i colonnelli locali, di ogni partito, allargano le braccia e scuotono la testa sconsolati. Sommessamente, viene da ricordare che a forza di procrastinare ben presto inizieranno anche problemi tecnici: raccolta firme, composizione delle liste, burocrazia varia ed eventuale.
Ve lo ricordate il caso Podestà? No? L’ex presidente della provincia di Milano, ai tempi coordinatore lombardo del Pdl, ebbe a fronteggiare lunghi processi per la questione firme false per il listino di Formigoni alle Regionali (assolto con formula pienissima nel 2016). Il reato non ci fu, ma la fretta sulle firme, quella sicuramente sì. Perché nelle elezioni c’è pure una parte burocratica che non bisogna sottovalutare: gli errori sono dietro l’angolo. E rimanere in bilico non è mai una cosa buona, tanto che Montale la metteva giù netta: “Piuttosto che fermarsi a mezza via, val meglio non cominciare”.