Gran Milano

La verità sui licenziamenti nel milanese. Il metodo multinazionali e il futuro

Giovanni Seu

Secondo la Camera del Lavoro, nell’area metropolitana di Milano sono oltre 30 mila i lavoratori che hanno perso il lavoro nel periodo Covid. A salvarsi sono stati finora settori come la logistica e il digitale, a farne le spese le piccole aziende

Le aziende dell’area metropolitana di Milano non hanno dovuto attendere luglio per effettuare i primi licenziamenti. Durante la pandemia è andato avanti un processo di ristrutturazione che, avvalendosi di svariati strumenti offerti dalle normative che disciplinano il mercato del lavoro, ha di fatto aggirato il blocco dei licenziamenti stabilito dal secondo governo Conte. Secondo la Camera del Lavoro sono oltre 30 mila i lavoratori che hanno perso il lavoro nel periodo Covid: “La realtà milanese conta 1.460.000 occupati, è una della più positive d’Italia con un tasso di occupazione che arriva al 70 per cento – spiega al Foglio Antonio Verona, responsabile Mercato del lavoro della Cgil – Sono diverse le soluzioni adottate dalle aziende per ridurre gli organici, si va dai prepensionamenti, ai licenziamenti per giusta causa oppure ai contratti a termine non rinnovati. C’è anche un’altra possibilità offerta dai contratti di espansione che consentono di anticipare l’uscita dei propri dipendenti con 5 anni di anticipo rispetto all’età ordinaria corrispondendo ai lavoratori cessati un’indennità sino alla maturazione dei requisiti per raggiungere la pensione: nel 2020 sono state autorizzate a farvi ricorso le aziende con almeno 100 dipendenti, un limite che prima del Covid era invece di 500”.

  

Un provvedimento, quest’ultimo, che ha contribuito ad aprire le porte a non poche ristrutturazioni aziendali in una realtà, quella milanese, che dopo il tramonto delle grandi fabbriche registra per l’impresa media un numero di 8-10 dipendenti mentre quella di grandi dimensioni, con oltre 500 dipendenti, non supera le 2-300 unità.

 

I settori che più hanno visto la riduzione degli effettivi sono “manifattura, servizi, ristorazione, turismo – spiega Verona – Hanno subito contrazioni molto forti e si trovano a dovere affrontare un ripensamento del modello organizzativo: da uno di tipo fordista a uno flessibile, tarato su una domanda che impone una struttura con un nucleo centrale fidelizzato attorno al quale ruotano situazioni flessibili”.

 

A salvarsi da questo giro di vite sono stati finora settori come la logistica e il digitale, a farne le spese le piccole aziende che non hanno retto al crollo dei fatturati. Ma anche quelle più grandi, ad esempio banche e assicurazioni hanno effettuato i tagli, come spiega Attilio Pavone, head of Italy di Norton Rose Fulbright: “A Milano hanno sede l’80-90 per cento di quelle che operano in Italia – afferma – e sono impegnate in vari settori come la finanza, la moda, il commercio, la cosmetica o l’informazione. Pur essendo dentro grandi complessi internazionali operano sul mercato come qualunque impresa italiana, non è prevista alcuna compensazione all’interno dei gruppi: si sono così verificate riduzioni di posti di lavoro anche del 15 per cento, aziende con 200-250 dipendenti hanno realizzato accordi per uscite incentivate per 20-30 lavoratori”.

 

Difficile stabilire quanti potranno essere ricreati, nel breve periodo è bene non indulgere all’ottimismo: “In questo momento domina l’incertezza – aggiunge Pavone – legato alla situazione sanitaria mondiale, non sappiamo quanti saranno i vaccinati e quale impatto avranno le varianti. Inoltre bisogna rivedere le modalità di lavoro, in che termini stabilire un modello misto che contempla lavoro agile e ufficio”.

 

L’identikit degli espulsi dal mercato del lavoro è sempre lo stesso, in caso di crisi chi paga sono le categorie deboli. “L’emorragia dei posti di lavoro – spiega il presidente di Afol Maurizio Del Conte – ha colpito due categorie in particolare: gli anziani e i più giovani. Per i primi sono stati studiati scivoli per favorire la loro uscita, per i secondi è stato sufficiente non rinnovare i contratti a tempo determinato che sono quelli maggiormente applicati a chi ha meno di 35 anni”. Il problema è che, almeno per il momento, non verranno sostituiti: “Non c’è turn over, alle uscite non seguono nuovi ingressi – spiega Del Conte. In questa situazione si trovano anche lavoratori donne che, per varie ragioni, hanno subito pesantemente la crisi. Per quanto riguarda la fine del blocco dei licenziamenti, gli effetti non si vedranno subito, bisogna tenere presente che si tratta di provvedimenti che possono avere una tempistica che può raggiungere i due mesi e mezzo: un bilancio compiuto si potrà fare ad ottobre quando verrà meno il divieto per tutti i settori”.

 

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