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Quella città che non vota. Col “taxista” Rabaiotti nelle periferie
Le prossime elezioni rischiano di riproporre la famigerata dicotomia tra centro e periferie. L'assessore alle politiche sociali del comune di Milano, candidato con Sala, spiega al Foglio come tenere insieme entrambi
Sono giorni di sondaggi, proiezioni, mappe che tratteggiano una Milano ancora spaccata fra la zona centrale, roccaforte del centrosinistra, e tutto il resto: i quartieri all’esterno delle antiche mura e della “circonvalla” della 90-91 come dicono i milanesi, dove chi vota preferisce la Lega (o sarà la Meloni brandizzata Feltri?) ma dove soprattutto prevale l’assenteismo. Nel 2016 al primo turno votarono 500 mila milanesi di cui il 70 per cento residenti nelle zone centrali e semicentrali. La retorica e le narrazioni stereotipate ai comizi abbondano, ma alla fine la domanda è sempre la stessa: come attrarre il voto di chi vive (o si sente) ai margini della Milano di nuovo frenetica e determinata a tornare in cima alle classifiche del #aplacetobe?
Il Foglio lo ha chiesto a Gabriele Rabaiotti, che tutti chiamano Raba. Architetto, studioso delle politiche pubbliche e di urbanistica, l’assessore uscente alle Politiche sociali e abitative si definisce ironicamente “un taxista”: perché i quartieri periferici dove la maggior parte dei politici non va lui li conosce, li frequenta, li annusa da sempre. Per presentare la sua candidatura nella lista civica di Beppe Sala, ha detto: “Bisogna partire dalla città più abitata e sostanziale, che dopo l’espansione degli anni ’60 e ’70 è uscita gradualmente dalle agende delle amministrazioni ed è stata più presente nella cronaca e nella retorica che nei progetti di ricostruzione della città reale”. Al Foglio spiega: “Gli abitanti delle zone che si trovano all’esterno della linea 90-91 sono sfiduciati e sfiancati perché da sempre a ogni tornata elettorale sono stati corteggiati e illusi da promesse mancate. Più la Milano scintillante prende quota e più loro si sentono frustrati, incazzati”. Probabilmente anche questa volta in quei quartieri ci sarà molto astensionismo, ma bisogna ragionare su come creare un’offerta politica nelle zone più problematiche. E “l’unica cosa da fare è affrontare le contraddizioni, non starne alla larga per paura di prendere ceffoni”. Bisogna entrare nelle viscere di alcune vie a Baggio o al Gallaratese, “dove nessuno entra perché sono autogovernate”. Attraverso i bandi destinati al terzo settore la giunta uscente ha destinato ingenti fondi per la riqualificazione urbana e sociale, ma ci sono tante zone dove lo scollamento si è acuito. “Ci sono vie dove, appena entri, ascolti solo un silenzio che spaventa”, spiega il Raba, “e dove basterebbe entrarci con un campo sportivo per cominciare ad affrontare la rabbia dei residenti, creare uno spazio comune. Le persone chiedono risposte individuali, una casa, un lavoro. Ma per evitare che lo scambio sia solo materiale, bisogna occuparsi anche dell’immateriale, del bisogno urgente di comunità di cui sentirsi parte”.
E per farlo, dice, bisogna “fare cose scomode”. Come bussare alle porte dei cittadini invisibili. “Durante la pandemia qualcosa in più è stato fatto attraverso la distribuzione di pacchi alimentari, mascherine, sostegno ai più fragili. I volontari hanno bussato a migliaia di case popolari e riallacciato fili i che non devono essere più spezzati. Non si può più aggirare la diseguaglianza sociale e parlare solo con chi può capire il linguaggio della politica. Sono convinto che sia possibile creare un’offerta e una domanda politica”. E se anche nei quartieri che sono stati riqualificati resta una distanza siderale con le istituzioni è perché “forse, ci è voluto troppo tempo”. “Durante un dibattito qualcuno mi ha chiesto provocatoriamente se a forza di occuparci dei diritti umani, ovviamente sacrosanti, ci siamo dimenticati di quelli sociali”. E’ la contraddizione che potrebbe far uscire dalle urne ancora una volta due città scollegate, realmente e metaforicamente. Ossia il 65 per cento della Milano popolare e popolata da 900 mila persone che vive oltre la “circonvalla”, dove non bastano l’urbanistica tattica, le piazze pedonali, la street art, le miriadi di progetti sociali non tutti efficaci, per usare un eufemismo. “Bisogna occuparsi delle case vuote e piene, puntare sull’edilizia sociale a costi contenuti e soprattutto uscire dai circuiti usuali, non avere paura di quello che troviamo” conclude Rabaiotti. Che, ci tiene a sottolinearlo, vive alla Barona.