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Rapper e brutti posti. L'altra Milano che don Burgio conosce
Per capire cosa succede nelle periferie che in questi anni di pandemia si sono estese a tutta l’area metropolitana, fino alla Brianza, la prima tappa obbligata è alla comunità Kayrós, a Vimodrone
"Se io schizzo è perché qualcuno mi fa schizzare. Se ho scavallato con una rapina è stato per l’adrenalina. Ora, dopo il carcere, il don mi ha fatto capire che sbagliando si può imparare”. Neim sbadiglia, ride, nasconde il viso nel cappuccio della felpa mentre racconta quello che pensa vogliamo sentirci dire. Anche lui viene dalla vecchia San Siro dove è nata la crew e il famoso brano Seven Zoo per evocare la zona 7 che ruota intorno a diversi rapper, fra cui Neima Ezza, arrestato insieme a Baby Gang perché entrambi accusati di alcune rapine. (Non giocare con noi / abbiamo il quartiere dietro / dentro la torre di Selinunte diventerà un grattacielo). Un brand hip-hop che rappresenta una sorta di community trasversale e multietnica dove sui social “si definiscono tutti artisti”, sorride don Claudio Burgio con uno sguardo attento ai suoi ragazzi, quelli che ha cominciato a raccontare nel libro “Non esistono ragazzi cattivi” nel 2010 e che è rimasto il motto della sua comunità, Kayrós.
Per capire cosa succede nelle periferie che in questi anni di pandemia si sono estese a tutta l’area metropolitana, fino alla Brianza, la prima tappa obbligata è alla comunità Kayrós, a Vimodrone. Guidata con uno sguardo lungo da don Claudio Burgio, cappellano del Beccaria e già direttore della Cappella musicale del Duomo, perché è anche un musicista. Qui arrivano dal carcere minorile o direttamente dalla strada minorenni di tutte le origini che raccontano come è cambiato il mondo, il loro mondo di sotto, prima e durante la pandemia. “Sono quasi tutti di seconda generazione, ma le classificazioni ormai sono fuorvianti perché le bande che si contendono il territorio, che formano gruppi numerosi spesso intorno ai rapper della zona, esprimono una cultura variegata sebbene predatoria. Sono multietniche e quindi paradossalmente inclusive”, spiega il don, come lo chiamano tutti perché lo rispettano, lo invitano ai loro concerti, sanno che lui è una chance per uscire dalla disperata solitudine delle loro esistenze. A parlare sono soprattutto i “grandi”: diciottenni che stanno facendo un percorso di reinserimento in comunità. “I più piccoli fanno delle rapine anche solo per 50 euro perché devono avere visibilità e pensano che così poi ‘rapperanno’ e diventeranno famosi; ma bisogna fare cose grosse prima di diventare qualcuno”, spiega Ivan, origini familiari in Costa d’Avorio anche se lui dice che viene solo dalla Comasina, dove è nato. Don Burgio spiega che ora la sfida educativa è molto complessa. “Bisogna entrare dentro le loro strade per capirli, per aiutarli. E in futuro le comunità tradizionali non serviranno a molto, bisogna crearle dove vivono loro. E cercare di far emergere qualche leader positivo. Io vorrei fossero loro a diventare educatori. Con alcuni ci siamo arrivati vicino ma poi sono stati arrestati per delle rapine e quindi non è stato possibile renderli autorevoli agli occhi delle istituzioni. Noi tentiamo la strada più rischiosa: stimoliamo le loro criticità, gestiamo le dinamiche anche negative per farli riflettere sulle conseguenze delle loro scelte. Senza mai dimenticare da dove vengono”.
Lo spiega bene Neima Ezza su Instagram quando lancia il rap Banlieue a metà gennaio. “Forse stare in quartiere ci ha fatto male”, dice in un video. Il don guarda oltre le rapine, guarda alla casa evocata in un brano da Neima Ezza. In comunità ci sono ragazzi che sono qui per la messa in prova, dopo il carcere, e vanno a scuola ma poi il pomeriggio tornano a San Siro, nelle zone periferiche che rappresentano la loro identità. Per questo il don crede che si debbano progettare comunità immerse nei quartieri, formare educatori che per quanto esprimano una cultura predatoria tipica della cultura hip-hop sono molto attenti alla loro famiglia, alla loro casa, quella della banda o del quartiere. “Abbiamo due ragazzi minorenni che sono scappati dalla casa di San Siro perché la madre è stata arrestata. Vivevano per strada, nel freddo, si passavano lo stesso maglione per riscaldarsi ed è stato un rapper a chiamarci per andare a prenderli, non un assistente sociale. Dico questo per far capire che l’approccio deve esser diverso”. Questi ragazzi che dissano, rappano, fanno la guerra alla banda di un altro quartiere, di una periferia che è anche quella di Lecco o di Rozzano non sono randa: le loro vite ruotano intorno ai loro leader che chiamano fra, bro (fratelli) e hanno un solo sogno: rappare, fare soldi. “E non si combattono a colpi di daspo, ma entrando nelle loro vite. Poi ci sono quelli che una volta arrivati in carcere, si spaventano e si fermano e quelli che invece vanno avanti perché non vogliono essere come i loro genitori, che magari parlano poco l’italiano e fanno lavori umili”, chiosa don Burgio.
Nella comunità Kayrós le periferie sono di casa. John, origini filippine, viene da una periferia dell’hinterland milanese e racconta cosa faceva la sua gang quando aveva 15 anni: estorsioni, usura, sequestri di persona. Poi il carcere e lo stop: “Io voglio lavorare, in quella cosa lì sono preso male ora”, racconta. I termini con cui raccontano le loro storie sono sempre quelli: schizzato, schizzo, scavallato per indicare l’impulso che li spinge a fare le rapine, a sentire l’adrenalina, a crescere nella crew. I rapper già famosi lanciano di notte video su YouTube e spesso li dedicano a qualche fratello in carcere. Sono il riferimento dei tanti ragazzi, sempre più giovani, 12 o 14 anni, che si trovano in via Zamagna a San Siro, il quartiere di Milano più sorvegliato perché più simile a un ghetto-banlieue ma che si aggregano anche in tante altre periferie geografiche e culturali. Ora però la violenza sta aumentando. Recentemente c’è stata una sparatoria a San Siro per una resa dei conti, pare, fra il rapper Kappa 24K e Carletto Testa, malavitoso fermato dalla Squadra mobile per la sparatoria di piazza Monte Falterona, l’8 gennaio.
Scriveva Giorgio Bocca nel 2005: “E’ sempre rimasta a Milano una oscura attrazione per la periferia”. E non è smettendo di nominarle, le periferie cresciute in questi anni intorno ai gangsta, rapper e affini che si definiscono artisti o a bande occasionali, che cessano di esistere. Chiamateli quartieri, ma restano sempre periferie, dove don Burgio teme una deriva violenta con omicidi che ci ricorderanno i ghetti americani. “Per questo motivo bisogna cambiare, adeguarsi, entrare nelle periferie con educatori cresciuti nelle bande e intorno ai gruppi musicali”, conclude il don mentre guarda, parla, ride con i suoi ragazzi cattivi. Un prete di frontiera può farlo. A patto che si capisca che le periferie sono p-e-r-i-f-e-r-i-e, mica quartieri.