Gran Milano
Storia della “biblioteca” segreta di Philippe Daverio, una scoperta di meraviglie
La moglie Elena ha accettato di aprire a piccoli gruppi, a partire dal mese prossimo, la “Biblioteca del Daverio” che d’ora in poi si chiamerà “Universo Daverio”
"Immaginavo sarebbe stata puntuale”, dice Elena Gregori, vedova di Philippe Daverio, superando il “secondo cortile”, ufficialmente quello malandato, in realtà il custode delle meraviglie dell’elegante palazzo Ravizza di piazza Bertarelli dove vive da quasi cinquant’anni. “Quando trovammo casa qui, con Philippe, io avevo diciassette anni, lui pochi di più e ancora studiavamo. Fu mia suocera a offrire le garanzie necessarie perché il padrone di casa ce la affittasse”. Pensava di rimanerci pochi mesi, giusto il tempo per organizzare quel grande amore e poi trovare “una di quelle casette del tranviere col giardino, ha presente?”.
Adesso che Philippe non c’è più, ma che il ricordo di lui è talmente vivo da mandare puntualmente esaurite le sue guide ai “Musei del mondo” vendute col Corriere della Sera, Elena Daverio ha accettato di aprire a piccoli gruppi, a partire dal mese prossimo, la “Biblioteca del Daverio”, con l’articolo determinativo che a Milano è vezzo identitario, e che d’ora in poi si chiamerà “Universo Daverio”. L’ha convinta Piero Maranghi che, dopo l’accordo con Vox Group, concessionario incaricato dal Vaticano per la gestione della Basilica di san Pietro e di Santa Croce a Firenze, sta facendo della Vigna di Leonardo un centro irradiatore di cultura e tradizione milanesi, con l’intenzione di abbracciare storie e luoghi della città. Nonostante la facciata settecentesca relativamente anonima, il palazzo di piazza Bertarelli condivide più di un legame con la Vigna, e tutto si trova appunto in quel secondo cortile, svoltando a sinistra. Oltre la porta a doppio battente, ci si trova nel refettorio del convento domenicano di sant’Agostino Bianco (o Convento di Sant’Agostino e San Pietro martire), al cospetto dei resti di un gemello della crocifissione di Donato Montorfano che si trova nel Cenacolo di santa Maria delle Grazie. Anno 1495, il disegno ancora ben tratteggiato, la pittura spesso illeggibile.
Philippe ed Elena Daverio recuperarono vani e opera una decina di anni fa: era la rimessa del portinaio, il bel pavimento di pietra ricoperto di cartoni e terriccio, l’ampissimo locale con le volte a crociera, bramantesco, adibito a magazzino. L’attribuzione dell’affresco venne certificata con inattesa solerzia dalla Sovrintendenza, ma tutti i costi di restauro furono sostenuti dalla coppia, per quel che era possibile restaurare: più che le muffe o la cattiva areazione, che avevano rischiato di far scomparire il Cenacolo e che erano state la dannazione di Fernanda Wittgens nell’immediato dopoguerra, nel caso dell’affresco di casa Daverio i problemi erano stati di ordine economico. Dopo l’abolizione dell’ordine, del monastero e dell’annessa scuola dei disciplini di sant’Ambrogio ad Nemus nel 1799 per opera di Maria Teresa d’Austria, verso la fine dell’Ottocento Valentino Ravizza, proprietario del palazzo progettato da Giovan Battista Piuri (lo stesso autore di Palazzo Besana in piazza Belgiojoso), staccò l’affresco, certamente per finanziare nuovi lavori. Fu sempre Ravizza, con occhio attento al marketing dell’immobile, a porre nel primo cortile una targa in ricordo della visita di don Pedro II, imperatore del Brasile, seguace del Beccaria e sostenitore di Alessandro Manzoni, venuto a porgere i suoi omaggi agli eredi dello scrittore: un appartamento con vista sul corso era stato occupato da Giulia Manzoni e Massimo d’Azeglio.
Insomma, aggirarsi di prima mattina fra i libri e le collezioni di Philippe Daverio, con l’Hayez di provenienza top secret, i cimeli napoleonici, i bronzi di Vincenzo Gemito e di Arturo Martini, i due pianoforti mezza coda sullo sfondo (“Philippe non riusciva a separarsene”, il Bösendorfer avrebbe bisogno di un’accordatura, sotto lo Steinway si trova una gradevole copia del ritratto di madame Récamier di Ingres), è un bel modo per proseguire la giornata in letizia. All’ingresso, una qualche belle dame sans merci ricorda che il fine Ottocento fu tutto orientalismo fantastico e femmes fatales. Oggi, alla Scala, a ottant’anni dall’ultima esecuzione, debutta Thaïs di Jules Massenet nel nuovo allestimento di Olivier Py. Tutto torna, tout se tient.