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Così Milano è diventata una capitale social housing. Una mappa

Cristina Giudici

L'ex assessore alle Politiche sociali e abitative Gabriele Rabaiotti ha individuato le aree dove sono sorti progetti e iniziative di stampo sociale: si tratta di circa 6.000 appartamenti, di cui 3.000 alloggi privati in affitto concordato

Oltre la “circonvalla” dove vive la Milano popolare e più popolosa, quella che va meno alle urne e nelle sue propaggini più estreme deve fare i conti con il degrado e l’abbandono, ci sono anche dei virtuosismi che non si trovano ancora in altre città grazie ai fondi immobiliari più etici, capitali pazienti e una politica del Comune che ormai da qualche anno ha sposato la filosofia immobiliare più socialmente accessibile ed economicamente sostenibile. Milano infatti è capitale (anche) del social housing che sta diventando una sfida culturale oltre che un pezzo, seppur minore, del mercato immobiliare per aiutare a ridurre il divario fra centro e periferie e rispondere alle criticità del caro affitto.

 

I primi complessi di edilizia sociale sono stati creati all’inizio del terzo millennio e rappresentano anche una nuova modalità dell’abitare che permette di creare delle comunità equo-eco-sostenibili di residenti. Gabriele Rabaiotti – ex assessore alle Politiche sociali e abitative, ora alla guida del gruppo consiliare Beppe Sala Sindaco – è un esperto della materia perché come urbanista è stato tra i promotori del villaggio della Barona, il primo polo di edilizia sociale nato nel 2000 su un’area industriale dismessa. E ha disegnato una mappa che circoscrive le aree dove sono sorti progetti di social housing e di edilizia convenzionata: 6.000 appartamenti circa di cui 3.000 alloggi privati in affitto concordato, 2.500 creati da fondi immobiliari e cooperative, 500 alloggi comunali (o di enti con finalità pubbliche) gestiti dal terzo settore attraverso speciali convenzioni. Con affitti che non superano i 450 euro al mese per un appartamento di 60 metri quadri.

 

A guardarli sulla mappa sembrano tratteggiare un cerchio esterno alla città storica, con qualche diramazione più interna che segna la progettualità del futuro, come quella ideata dal progetto “reiventing cities”.  “Per evitare pasticci è necessario distinguere nell’housing sociale quello che deve fare il pubblico quando intercetta i privati, e quello che invece deve fare il privato quando interviene in convenzione con il pubblico”, osserva Rabaiotti. “Sulle aree pubbliche la quota di edilizia convenzionata dovrebbe essere maggiore per poter ottenere forme più coraggiose ed incisive di redistribuzione”. Milano è però l’unica città italiana che è riuscita in 20 anni a mettere in campo un sistema integrato di operatori che hanno contribuito a creare una piattaforma per alloggi con canoni più accessibili che prima non esisteva.

 

La partenza può forse essere individuata nel dibattito che nel 2000 ha rotto il silenzio sul tema della casa popolare e sociale. La curia milanese, per volontà del cardinal Martini e della Fondazione Cariplo, lanciò una sfida alla città e Cariplo intraprese un percorso che diede vita al primo fondo etico immobiliare e alla prima fondazione dedicata al social housing. Redo, la società che ha realizzato l’80 per cento degli interventi di social housing a Milano tramite il Fondo Immobiliare di Lombardia, ha creato 8.500  appartamenti in tutta la Regione, come ci ha spiegato Andrea Vecci, responsabile per l’impatto, la sostenibilità e la comunicazione di Redo. “Villaggio Barona e Cenni di cambiamento sono stati i primi esperimenti per coniugare necessità abitative e sociali per avere servizi educativi, culturali, sanitari e ambientali, superando il modello dei quartieri dormitorio. Oggi il social housing è più strutturato: nei nostri complessi di edilizia sociale esistono team gestiti anche da enti del terzo settore che curano i bisogni dei residenti. E mi auguro che prima o poi il social housing possa condizionare anche il mercato”.

 

Si tratta di una sfida che guarda al futuro della città da cui i giovani sono stati espulsi verso le zone più periferiche. La diffusione dell’edilizia sociale rappresenta una possibilità di una parziale riduzione della frattura fra il centro proibitivo per il ceto medio e medio basso e le zone periferiche per diventare un’alternativa all’approccio puramente speculativo del mercato immobiliare. Dalla mappa tratteggiata da Rabaiotti si intravede una nuova Milano che è cresciuta soprattutto nella zona sudest grazie all’intervento pubblico-privato di quelli che si chiamano in gergo capitali pazienti. Un termine che sembra una metafora di un’altra Milano nata vent’anni fa e che può espandersi anche grazie alla promozione e allo sviluppo dell’edilizia convenzionata del comune di Milano che ha fatto accordi con operatori privati attraverso l’Agenzia Milano Abitare. “La prima fase del social housing ha soddisfatto le domande del ceto medio basso, anche per chi esce dagli alloggi popolari”, spiega Rabaiotti. “Abbiamo risposto alla parte bassa della fascia alta; ora bisogna puntare alla parte alta della fascia bassa con canoni compresi tra i 250 e i 350 euro/mese per 60 metri quadri. Si potrebbe cominciare a destinare a questo progetto una quota degli appartamenti pubblici che si liberano ogni anno per il turn over e che il Comune fa fatica a ristrutturare”. Nella speranza che il social housing accelerato dal Comune di Milano nella giunta precedente possa essere esportato nel resto del paese.  
 

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