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A Milano lo “smart working di guerra” è già al 22 per cento. Idee

Daniele Bonecchi

Molti teorizzano che l'attività da remoto possa essere la risposta di sistema non solo alla pandemia, ma anche a un cambio di “cultura” del lavoro.  Nella capitale lombarda, oltre 8 realtà su 10 hanno almeno un dipendente non in presenza

Dopo due anni di riprese settembrine a singhiozzo, con la mascherina e la città che rimaneva mezza vuota, Milano è ripartita con gli uffici, i mezzi, i bar e tra poco le scuole pieni. In presenza. E lo smart working, che doveva essere la nuova frontiera del lavoro agile, grazie alla rivoluzione digitale?

 

 Molti teorizzano che possa essere la risposta di sistema non solo alla pandemia, ma anche a un cambio di “cultura” del lavoro che si sta diffondendo, almeno in quei settori in cui la presenza fisica non è decisiva. Però ora, in piena crisi energetica, potrebbe trasformarsi in uno “smart working di guerra”. Con i pro e i contro. E a patto, per prima cosa, che non torni ad essere il lavoro a domicilio degli anni ’70, somministrato dalle aziende del manifatturiero soprattutto alle donne, molto simile al cottimo. Mentre il sindaco Beppe Sala si prepara al peggio e dice che “per risparmiare sui costi dell’energia tutto girerà attorno ai tempi della città con interventi che dovranno lavorare in sinergia con quelli nazionali, con la chiusura di uffici e impianti sportivi al venerdì”, aprendo di nuovo allo smart working di cui pure aveva denunciato certi limiti, nel sindacato aguzzano proposte.

“E’ una fase di transizione – spiega Massimo Bonini, segretario della Camera del lavoro di Milano – Bisognerà discuterne con le imprese, per ragionare sul modello organizzativo. Abbiamo molti lavoratori favorevoli allo smart working, per contro molte donne, invece, che vorrebbero tornare in azienda perché il doppio carico di lavoro (famiglia più azienda) diventa pesante”. Anche sul versante delle imprese c’è chi vorrebbe ripristinare modelli antichi, verticali, e chi invece pensa di svuotare gli uffici per risparmiare: prima il costo era lo spazio, ora è anche la bolletta energetica. “Serve un modello che valorizzi lo smart working, basato su obiettivi, con maggiore autonomia dei lavoratori e non sulla rimodulazione del lavoro d’ufficio”, dice il sindacalista.

Federico Rampini (sul Corriere Della Sera) a Cernobbio ha intercettato uno dei più grandi investitori americani (e mondiali) che ha lanciato un pressante appello affinché i dipendenti tornino a lavorare fisicamente negli uffici perché – dice – “lo smart working limita la nostra esposizione a idee, gruppi etnici e componenti sessuali diverse”. Lo ha fatto con un argomento controintuitivo: lo smart working isola le persone, di conseguenza le rende più faziose, più tribali, riduce la loro esposizione a idee diverse. Ma a Milano – città da sempre multiculturale – non c’è spazio, almeno per ora, per questi timori, anche perché – dopo il boom nella difficile stagione della pandemia – il lavoro agile sembra essere in crescita.

E ora che l’economia di guerra, oltre a spegnere le luci potrebbe favorire il lavoro da casa, gli imprenditori guidati da Alessandro Spada fanno di necessità virtù. Secondo i dati più recenti raccolti da Assolombarda, che ha coinvolto più di 250 imprese milanesi del manifatturiero e dei servizi avanzati, oltre 8 realtà su 10 hanno almeno un dipendente in smart, per un numero di lavoratori coinvolti pari al 22 per cento del totale. La percentuale risulta più elevata tra le imprese dei servizi (91 per cento, a fronte del 79  nell’industria) e a Milano (90 per cento, rispetto al 78 rilevato nell’hinterland). Tre anni fa solo 3 imprese su 10 ricorrevano al lavoro agile. La quota di smartworker si fermava  al 15  per cento. Al netto di chi non si esprime, il 63 per cento di queste imprese milanesi prevede di attivare lo smart working in maniera strutturale nel futuro. Tra le aziende intervistate da Assolombarda, sono un centinaio ad aver già introdotto lo smart working in modo strutturale. All’interno di queste realtà la quota di smartworker raggiunge il 27 per cento, con punte del 43 per cento nei servizi, una quota superiore anche al 22  per cento dei primi mesi del 2022, quando ancora si era in modalità di emergenza.

Tra gli investimenti “fisici”, la quasi totalità delle imprese (81 per cento) segnala la necessità di pc portatili, mentre investimenti sullo smartphone aziendale sono circoscritti al 38 per cento delle aziende. Rilevante appare invece l’attenzione alla sicurezza informatica: in ben 4 aziende su 10 gli investimenti fisici sono concentrati su strumenti di protezione. Quasi la metà delle aziende – conclude la ricerca degli industriali – ha guardato alla ricaduta positiva per i propri collaboratori (migliore conciliazione vita-lavoro 31 per cento, fidelizzazione e attrattività aziendale 17 per cento), mentre nella virata verso il lavoro agile, il fattore economico è quello principale per meno di un quarto delle aziende (orientamento al risultato 13 per cento).

Dal lato del principale rischio, il più citato è l’impatto sull’interazione delle persone, sommando la minor comunicazione (29 per cento) e il minor contributo all’innovazione (15). Ma questo avveniva prima dell’autunno-inverno in cui esploderanno i costi dell’ energia e le bollette. Lo smart working di guerra sarà sufficiente a bilanciare i costi, o sarà solo una soluzione emergenziale, come la vecchia austerità? La sfida è anche di sfruttare la (cattiva) occasione per riformulare le strategie. Gli industriali lombardi, per voce di Alessandro Spada, ora però danno priorità a contenere i costi dell’energia, proponendo il tetto al prezzo del gas, che naturalmente “non può che essere europeo”. Primum vivere, poi si vedrà.

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