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Stadio Meazza, il pasticcio assurdo di una città che non sa più innovare

Maurizio Crippa

Invece di guidare il progetto la politica si è chiusa e ha guardato solo indietro. Dov’è la Milano di Expo e dello Skyline?

Abbattere il Meazza? “Capisco che per le squadre abbia un senso”, ha commentato Beppe Sala quando, in dicembre, Milan e Inter hanno presentato il progetto rivisto per il nuovo stadio. Dal quale, a furia di limare in base alle richieste del Consiglio comunale e di chiunque altro avente (o non avente) voce in capitolo, era sparita l’idea di conservare il vecchio San Siro, tutto o un pezzetto. E il sindaco aveva proseguito: “D’altro canto, a tutti coloro che chiedono che San Siro resti io dico: che ne facciamo, però?”. E in questo dubbio amletico di Beppe Sala c’è tutto il senso di un pasticcio irrisolvibile in cui l’Amministrazione di Milano si è infilata quasi da sola. Invece di provare a correggere e dare un senso all’iniziativa (sacrosanta, inevitabile) dei due club, si è fatta allegramente spingere da una folta rappresentanza di “società civile” e di maggioranza-opposizione politica che non ha mai nemmeno provato a formulare una risposta alla desolata domanda del primo cittadino. Una risposta concreta, s’intende, non le bellurie di un Carlo Monguzzi, eterno capogruppo dei Verdi, che si sveglia ora con la proposta di chiedere “al mercato internazionale (squadre comprese) chi è disponibile a investire su San Siro e dintorni”. Già, chi è disponibile? E in base a quali parametri? Nebbia (verde) a San Siro.

 

Così che alla fine l’Amministrazione di una sinistra che è stata per anni bandiera dell’innovazione e della capacità progettuale su Milano rischia di finire impiccata, dopo aver gentilmente fornito la corda, alle furbe mattane e al luddismo culturale di un acerrimo nemico politico: Vittorio Sgarbi. Che potrebbe vincere quasi senza giocare la sua partita per impedire la demolizione del Meazza. Il che, tradotto in parole semplici – e nonostante l’estemporaneo aiutino di Ignazio La Russa, che da qualche tempo propone la formula dei due stadi (sullo stesso sito: e chi paga?) – significa impedire che Milano abbia uno stadio all’altezza dei tempi. Il grimaldello di Sgarbi è il vincolo, persino doppio: oltre a quello “relazionale” potrebbe arrivarne anche uno “monumentale”, che scatta dopo 70 anni, sebbene il Meazza sia stato modificato trent’anni fa. Una forzatura logica e fattuale che renderebbe immodificabile un manufatto su cui né la Sovrintendenza né il ministero avevano trovato motivi per intervenire. Ma è significativo che Sala abbia commentato così l’iniziativa di Sgarbi: “Se vincolo deve essere, meglio farlo subito”. Tradotto, nel commento di Repubblica: “Via il dente via il dolore”. Perché a quel punto Inter e Milan dovrebbero vedersela con il governo, e per Sala sarebbe come liberarsi di un dossier delicato e impopolare. O sarebbe come rinunciare alla capacità di Milano di decidere e innovare, abbandonando anche un progetto urbanistico più ampio che coinvolgerebbe tutto il quartiere. Perché, per dirla chiara: chi metterà i soldi per risistemare quella landa desolata attorno al Meazza, una cesura col resto del quartiere, un deserto in città?

 

La vicenda del nuovo stadio va avanti da ormai quasi quattro anni: estate 2019, le due società annunciarono l’intesa per la costruzione di un nuovo stadio. Il progetto iniziale prevedeva 1,2 miliardi di investimenti (circa la metà per lo stadio e il resto in sviluppo immobiliare) e comprendeva 81 milioni messi dai club per nuova viabilità e urbanizzazione e altri 60-70 per oneri. Per il Comune un incasso non indifferente, necessario per sistemare il malandato quartiere, che rischia di rimanere sempre più isolato da una barriera invisibile ma fisica rispetto alla parte nord: dove c’è il via libera per il piano immobiliare di Hines all’ex Trotter ed è in corso la riqualificazione delle Scuderie De Montel. Da subito le cose non sono apparse semplici. Va detto che le società si sono mosse con poca grazie istituzionale e anche di marketing delle idee. Il progetto edificatorio era abbondantemente oltre i parametri del Pgt approvato proprio in quell’ottobre (forse si poteva rifletterci un attimo in più, e definire prima la vicenda San Siro); il piano finanziario impegnativo; i club non avevano provveduto a preparare il terreno per un intervento che inevitabilmente avrebbe toccato corde profonde e identitarie. Poca attenzione anche al contesto – nel progetto dello Studio Boeri, che non fu in pratica nemmeno considerato, come anche altri, c’era l’idea di spostare il tunnel di via Patroclo, modificando l’intera viabilità: poteva essere l’uovo di Colombo, ma a nessuno sembrò interessare una soluzione urbanistica complessiva. Fu una sorta di offerta “prendere o lasciare”, in cui per giunta i vincitori del progetto stadio erano già decisi. Normale che montassero le critiche. In ogni caso il Comune aveva dato parere favorevole, ponendo precise condizioni di modifica accettate da Inter e Milan.

 

Si poteva fare di meglio? Probabilmente sì. Da parte di tutti. Ma è qui che, al netto della strategia controproducente dei club, si è innesta una serie di scelte, o non scelte, politiche che hanno moltiplicato i problemi. Alla preistoria di questo racconto ci sono le battute, via via meno divertite man mano che passava il tempo, di Beppe Sala. Costretto prima a ricordare che non poteva abbatterlo di suo iniziativa, il Meazza: poi alla Corte dei conti come glielo spiego?, diceva; poi a spiegare ai facinorosi del partito Nimby-statalista che in paese libero non si possono costringere le squadre a giocare dove non vogliono; poi a chi strillava “meglio mettere i soldi per le case popolari”, che i soldi, senza l’aiuto dei privati, lui non li aveva; e infine a chi vorrebbe tenersi il Meazza com’è: “Se Moratti vuole salvare lo stadio, può comprarlo”. In questo tira e molla, arrivare a una decisione era comunque possibile. Secondo più di un osservatore sarebbe stato possibile, una volta approvata un dichiarazione di interesse, ricorrere direttamente alla Legge stadi, delegando le successive fasi alle competenze regionali e sottraendole così ai dibattiti e sub-dibattiti locali. Ma si andava verso le elezioni e Beppe Sala, a lungo incerto se ricandidarsi o provare nuovi palcoscenici nazionali, ha preferito non creare tensioni nella sua parte politica, in cui la componente contraria all’operazione è sempre stata cospicua. Così si è preferito mettere in piedi la macchina del “dibattito cittadino”, rivelatasi una lunghissima perdita di tempo senza costrutto, il rito formale di una inconsistente e umiliante democrazia diretta. E nel frattempo le scelte di sindaco e alleati sono state quelle della dilazione delle decisioni e infine di presentarsi alle elezioni con una nuova formazione consiliare in cui la componente Verde e anti-stadio è più forte di prima. Nel frattempo, le scelte incongrue non sono venute solo dalla politica. E’ poco comprensibile che, di fronte a un progetto di tale portata, ognuno abbia proceduto per proprio conto, senza una regia. I progetti per il Trotter e le nuove Terme, e altri sull’edilizia di quartiere, avrebbero dovuto essere parte di un piano che riguardasse anche lo stadio e la parte sud di San Siro. Ma non è avvenuto. Così Sala, che di suo non è mai stato contrario al progetto di un nuovo stadio – se non altro perché ne sa calcolare i benefici strutturali ed economici per la città – si ritrova ora con un Consiglio comunale senza maggioranza su San Siro, due ricorsi al Tar ancora pendenti, e un sottosegretario alla Cultura pronto al colpo di ghigliottina. E se la vicenda del nuovo stadio finisse nel nulla, addirittura decapitata con destrezza da un vincolo creato ad hoc da Sgarbi ma benedetto anche da sinistra, sarebbe non soltanto una sconfitta sportiva per le ambizioni dei club. Non sarebbe solo lo stop a un possibile progetto di rigenerazione di una cruciale area della metropoli. Sarebbe un disastro politico e amministrativo per una città che solo quindici anni fa è stata protagonista delle rivoluzioni di Porta Nuova, di City Life, della rinascita della Darsena, di varare un’operazione ambiziosa come quella degli Scali ferroviari, di creare e vincere la scommessa Expo e di trasformarla poi nel distretto Mind – con il contributo di Beppe Sala, prima commissario Expo e poi parte in causa come sindaco, e dall’altra parte c’era Giuseppe Bonomi, gran manager che oggi cura il dossier stadio per i due club. Sarebbe insomma un fallimento progettuale. Un arrendersi pasticciato a uno statu quo inutile a tutti, in base a una logica rivolta tutta al passato. E per giunta costoso: se le due squadre decidessero di andarsene, il Comune perderebbe circa 60 milioni di affitto annuale, e si troverebbe a gestire un impianto vuoto che costa circa 10 milioni di manutenzione. E per i club, rimanere significherebbe rinunciare a introiti e a piani di sviluppo futuri. Una situazione che solo dieci anni fa sarebbe parsa surreale ai milanesi: di sinistra come di destra. Una decisione positiva entro il 2024 appare sempre più difficile. Su tutto questo incombe ora la volontà di trasformare un catafalco di cemento armato non più funzionale per il calcio d’alto livello – chi insiste a dire che “nonostante la vetustà rientra in categoria 4 Uefa, cioè tra gli stadi italiani con maggior livello tecnico”, certifica solo che gli altri impianti italiani sono peggiori – e non solo da parte di Sgarbi.  L’Associazione Gruppo Verde San Siro, ha fatto ricorso al Tar perché “demolire il Meazza significa distruggere un simbolo di Milano, è come demolire metà del Duomo o il Pirellone”. Nonostante, a settembre 2020, anche il Comitato tecnico scientifico dei Beni culturali avesse deliberato che sì, San Siro “ha un valore fortemente simbolico” in vista di un “vincolo storico relazionale”, ma aveva rifiutato di porre il “vincolo monumentale” che lo renderebbe intangibile. Se accadesse, Inter e Milan sarebbero costrette a “fare buon viso”, come ha detto con un po’ di cinismo Sala, o a cercare casa altrove. Con calma, a quel punto c’è una convenzione che scade nel 2030: ma nel frattempo, con le Olimpiadi in mezzo, sarebbe difficile costringerle a mettere altri quattrini per migliorare l’impianto. Così fioccano i piani B, C o Z. L’ipotesi che le società si dividano su due impianti non regge: costerebbe troppo. La ristrutturazione è sempre stata scartata per i costi e perché bloccherebbe l’utilizzo per molto tempo (il Bernabeu è stato chiuso 560 giorni). C’è l’ipotesi Sesto: ma è lontano e i costi alti. C’è chi parla di un’area a Porto di Mare, di un’altra a San Donato. Ma ogni partita ha la sua zona Cesarini e c’è chi racconta di una  proposta segreta che metterebbe d’accordo tutti,  trasformando un disastro in una vittoria all’ultimo minuto.

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  • Maurizio Crippa
  • "Maurizio Crippa, vicedirettore, è nato a Milano un 27 febbraio di rondini e primavera. Era il 1961. E’ cresciuto a Monza, la sua Heimat, ma da più di vent’anni è un orgoglioso milanese metropolitano. Ha fatto il liceo classico e si è laureato in Storia del cinema, il suo primo amore. Poi ci sono gli amori di una vita: l’Inter, la montagna, Jannacci e Neil Young. Lavora nella redazione di Milano e si occupa un po’ di tutto: di politica, quando può di cultura, quando vuole di chiesa. E’ felice di avere due grandi Papi, Francesco e Benedetto. Non ha scritto libri (“perché scrivere brutti libri nuovi quando ci sono ancora tanti libri vecchi belli da leggere?”, gli ha insegnato Sandro Fusina). Insegue da tempo il sogno di saper usare i social media, ma poi grazie a Dio si ravvede.

    E’ responsabile della pagina settimanale del Foglio GranMilano, scrive ogni giorno Contro Mastro Ciliegia sulla prima pagina. Ha una moglie, Emilia, e due figli, Giovanni e Francesco, che non sono più bambini"