GranMilano
Milano è davvero il disastro che qualcuno dipinge? Anche no
Il “modello Milano” è storicamente (e politicamente) un metodo di governo e programmazione: ragionare bipartisan, aggiungere e non demolire, condividere il più possibile le strategie. Coinvolgere le enormi potenzialità, qui, del privato sociale, un modello inclusivo. Un po' in difficoltà forse, ma non superato
Noi di GranMilano abbiamo sempre sostenuto e provato a suffragare con dati e spunti una certa idea, positiva e propulsiva, di Milano. Senza cadere nella retorica del place to be, abbiamo però indicato l’esistenza di un “modello Milano” interessante e che non coincide necessariamente con “la città di Expo”, la “capitale del design”, l’“hub della conoscenza” e altre definizioni-slogan.
"Modello Milano” è stato negli anni scorsi anche il marchio di una certa sinistra riformista, oggi invero appannato. Ma “modello Milano”, per noi, è invece storicamente (e politicamente) un metodo di governo e programmazione: ragionare bipartisan, aggiungere e non demolire, condividere il più possibile le strategie. Coinvolgere le enormi potenzialità, qui, del privato sociale. Ed è sempre stato un modello inclusivo: si “diventa” milanesi perché si è attratti da un sistema di opportunità, competenze, reti economiche e reti internazionali. Perché si respira un pragmatismo che è stato capace, negli ultimi decenni, di ridisegnare più volte e completamente lo sviluppo urbano.
Questo modello è finito, è “un’ubriacatura” passata, fatta solo di gentrification, eventi e week? Va di moda dirlo, spesso sommando in modo approssimativo problematiche diverse. Ovvio, c’è anche del vero e i problemi ci sono: dell’elefantiasi del modello-week, dell’esplosione dell’immobiliare si parla (o dovrebbe parlare) da anni. Ma certi giudizi che risentono di un nuovo mood culturale, sopratutto a sinistra, rischiano qualcosa di forzato, se dipingeono Milano come un città sull’orlo del flop (sottotesto: abbasso il modello turbocapitalista). Come durante il Covid, quando si registrò una diffusa e odiosa “Schadenfreude” per “la città dei ricchi e dell’inquinamento”, la città che “non restituisce”.
Si dovrebbe, facendo un po’ la tara ai drammi immobiliari delle Lucarelli, tener conto di qualche altro aspetto. Vivere a Milano costa caro perché è bella, funziona, ha buoni servizi, dall’educazione alle reti sociali. Trasporti non proprio da Parigi o Monaco, ma superiori al resto dell’Italia. Se non fosse così, nessuno vorrebbe starci. Milano è attrattiva per i giovani perché ha sette università importanti, con punte d’eccellenza. E la Milano dalle competenze offre lavoro: i salari bassi sono un problema nazionale, non milanese, ma l’offerta d’ingresso professionale e il trampolino internazionale sono ancora validi. Milano spinge fuori proprio perché tutti ci vogliono stare. Ma, soprattutto per i giovani e i redditi medi, offre alternative realistiche in una Città metropolitana non scollegata, e che per un buon 70 per cento è molto più di qualità di altre aree metropolitane italiane o anche europee. Certo è in ritardo sull’housing sociale, ma non è tutta colpa della gentrification, ed è un po’ impallata su certe utilities pubbliche (Aler, MM) e ingessata da bilanci stretti. Ma resta una città governata. E’ curioso che spesso le critiche vengano da quella stessa area culturale-politica che del place to be ha beneficiato, per studi o professioni, e che passa i suoi anni migliori e suoi i weekend tra Londra e Madrid: miti assoluti di “quel” modello” ora accusato. Dare la colpa alla “bolla” di Expo – senza ricordare che la rinascita-sviluppo di Expo è iniziata dieci anni prima di Expo e proseguita fino al Covid, 15 anni, è fuorviante. Il problema di Milano oggi sta in una scarsa capacità “trans-politica” – se permettete la parola per sottolineare che non è colpa di chi governa (città, comuni e regione) ma di tutti e assieme, e di una progettualità che si è appannata. Ne avevamo parlato (con un certo anticipo) ben prima delle elezioni del 2021. Negli articoli di questa pagina proviamo ad approfondire.