Granmilano
Trasformare la città che non dà casa ai giovani e ai poveri si può, con una politica seria
Al Forum dell’abitare a Milano l’assessore Maran mette in campo Società Casa. Metodi nuovi di investimento e finanziamento, benefit aziendali. Costruire anziché vendere
La politica italiana a volte sa essere masochista. Tafazziana, con tanto di bottiglia sferrata più volte là dove fa più male. E su niente, tra tutti gli ambiti cruciali delle competenze dello stato e degli enti locali, ci si è accaniti negli ultimi decenni con più vigore che sulle politiche abitative. Delle quali tutti in campagna elettorale parlano, generalmente a sproposito – per limitarsi ai tempi recenti, si va dal super-bonus all’eterna minaccia di patrimoniali, al terremoto che ancora non si riesce a stimare dell’housing green della Commissione europea – e su cui nessuno individua vere soluzioni quando poi governa. Certo, è un tema complicato, che incrocia in un colpo solo vita delle persone, diritti, urbanistica, welfare, sicurezza, propensione italiana a fregare comunque e chiunque, immigrazione, burocrazia, mancanza di risorse. Tutto insieme. E allora, bisogna districarsi, fare ordine. Ognuno la sua parte, perché all’elenco bisogna aggiungere il prezzemolo di ogni riforma impossibile: la suddivisione perversa delle competenze.
Si potrebbe cominciare dalla questione delle risorse. Le case popolari erano finanziate dai lavoratori con trattenute in busta paga in quanto concepite come una sorta di welfare aziendale. Attenzione: erano destinate non ai poveri, non agli indigenti, non agli ultimi degli ultimi, ma ai lavoratori che non potevano permettersi case migliori, e alle quali aspiravano al punto di lasciare le case popolari appena avessero potuto per avviarsi verso il sogno di una casa di proprietà. Poi, con l’abolizione del contributo, il mondo delle case popolari è diventato qualcosa d’altro, una forma di welfare sociale. E come ogni welfare sociale è diventato passività netta sui bilanci dei comuni, delle regioni, dello stato. A questo bisogna aggiungere che l’abusivismo ha aggiunto il tema dei minori e della sicurezza, e che la quantità di case per i lavoratori diventate case per indigenti a Milano e dintorni è tale che la gestione burocratica si è trasformata in un moloch e le manutenzioni in un’impresa titanica. Lo Stato, da parte sua, è rimasto dormiente. Anche l’ultimo governo non ha un ministero ad hoc sulla casa, quello prima ha varato un 110 per cento per le villette del ceto medio e gli appartamenti “dei ricchi”, invece di dedicarsi solo ed esclusivamente al recupero del patrimonio edilizio popolare. Se questa è la situazione italiana, a Milano, dove il divario tra mercato degli affitti privato e case popolari ha raggiunto dimensioni da Guinness, il tema è ancora più cogente e reso incandescente dalla dualità tra Comune e Regione Lombardia. Uscirne con qualche sottovalutazione sulla scia della “narrazione negativa” à la Lucarelli, a cui qualcuno potrebbe contrapporre una “contronarrazione positiva” (cosa che Beppe Sala ha detto di non volere assolutamente), è offensivo non tanto per l’intelligenza dei cittadini, quanto per i loro diritti.
Fatta questa premessa, la tre giorni di Forum dell’Abitare a Milano voluta da Pierfrancesco Maran, che si dimostra politico di spessore soprattutto nel campo dell’ideazione di possibili soluzioni, è un momento prezioso di riflessione che ha già dato come frutto un documento che è una boccata d’aria fresca nell’asfittico binomio messo su durante la campagna elettorale dall’altro Pierfrancesco, Majorino (Regione cattiva, Comune buono). Maran vorrebbe un “back to basics”. “Nel corso dei decenni la questione abitativa è stata tralasciata uscendo dal welfare aziendale. Partendo da progetti come ‘Casa ai lavoratori’ è utile ragionare se il sistema imprenditoriale può tornare a essere protagonista di una sfida volta a migliorare le condizioni di vita dei suoi dipendenti sia sul piano salariale e della qualità dell’impiego, per rispondere alla domanda abitativa”. Insomma, torniamo alle case come benefit aziendale. Ma visto che le case, diceva Francis Bacon, sono da abitare e non da guardare, bisogna porsi il problema dei fondi, ma senza iniziare la solita lamentazione biblica. Dice Maran: “A Milano oltre il 10 per cento della popolazione vive in case pubbliche, un dato straordinario se pensiamo che nessuna altra città raggiunge la metà dell’offerta. Tuttavia questo patrimonio, in parte di proprietà del Comune, in parte della Regione, è spesso fatiscente e causa un disavanzo strutturale dal punto di vista finanziario anche perché non riceve sussidi pubblici per la sua gestione”. Come se ne esce? Secondo Maran neppure raddoppiando le risorse (che peraltro non ci sono), si risolverebbe il problema. “Un percorso possibile consiste nel superamento della logica di finanziamenti una tantum per prevedere un supporto economico continuativo alla manutenzione, ad esempio applicando al patrimonio pubblico gli stessi incentivi pensati per l’edilizia privata”. Ma c’è di più, perché di fronte a un sistema che regge solo vendendo alloggi, proprio perché il pubblico non può (e forse non vuole, a livello statale) investire di più, la riduzione del patrimonio è stata l’unica strada percorsa.
Maran propone di fare nuove case, e rompe così un tabù. Ma come le finanzia? Con una nuova creatura la “Società Casa”, che ha una funzione uguale e contraria ai fondi immobiliari messi su da Letizia Moratti (che dovevano valorizzare gli asset per vendere). “L’idea della creazione della Società Casa nasce dalla necessità di promuovere lo sviluppo e la gestione congiunti di servizi abitativi pubblici e sociali, al fine di fornire risposte coordinate alle esigenze della cittadinanza. Inoltre consente una contaminazione virtuosa tra le pratiche applicabili alle due tipologie di patrimonio, anche in un’ottica di coesistenza e mix abitativo che avrebbe delle positive ricadute di carattere sociale. La creazione della società permette inoltre di ottimizzare da un lato le manutenzioni ordinarie, dall’altro di migliorare la gestione sociale del patrimonio e affrontare un tema che ha un impatto importante sul bilancio dell’amministrazione comunale, cioè la gestione dei pagamenti e delle conseguenti morosità”. Insomma, non solo gestione. Ma anche coinvolgimento degli altri attori per l’aumento delle case, da 22 mila a 25 mila entro il 2030. La strada è quella tracciata da Parigi e da Barcellona. E apre la via per una riflessione da troppo tempo latitante: come si pone Milano rispetto alla sua area metropolitana?
E la regione? Per adesso Paolo Franco, nuovo assessore regionale, sta prendendo le misure. Sul tavolo ha il buon lavoro di Alan Rizzi, svolto per troppi pochi mesi da uno dei pochi che davvero abbia creduto nel mandato di governare le case popolari. E l’esperienza di Aler Milano, che ha iniziato un percorso di rinnovamento e i possibili progetti i riforma come lo spacchettamento tra Milano e Città metropolitana da prendere in considerazione. Il lavoro di Maran è particolarmente prezioso perché il tempo c’è: una finestra mediamente lunga (quattro anni) in cui non ci sono tensioni elettorali: una sorta di “pax istituzionale” e politica per tornare a creare soluzioni condivise. Da questo punto di vista, oltre all’assessore competente, probabilmente sulla vicenda dovrebbero intervenire in prima persona anche Attilio Fontana e il sindaco Beppe Sala. Perché quella della casa è la tipica sfida che può costituire un risultato di mandato importante. Anche senza vincerla subito, l’importante è iniziare.