Granmilano
Ripasso di Bon Ton aggiornato in compagnia di Lina Sotis
Nel libro in uscita per Baldini+Castoldi scritto assieme a Carlo Mazzoni, la “seconda signora del Corriere” ritorna sulle tracce di quarant’anni prima per stilare un alfabeto di buone maniere. Con la stessa grazia di sempre per leggere la società
“Non mi chiamare cara!”, dice Lina Sotis. È una delle prime cose da sapere, anche se lei dice che nessuno insegna le “cose da sapere”. D’altronde, “oggi tutti dicono ‘cara’, è la cosa più spiacevole che uno possa sentirsi dire. È meglio chiamarsi per nome. ‘Senti, Lina’ ha qualcosa di amichevole. ‘Senti, cara’, ha qualcosa del pollivendolo che vuole essere arrivato e della commessa alle prime armi”. Il piacere di incontrare a trovare Lina Sotis, di ascoltarla parlare con il brio di una Milano così. Nel suo Nuovo Bon Ton (Baldini+Castoldi, in uscita in questi giorni), la “seconda signora del Corriere” (Giulia Maria Crespi, indiscutibilmente la prima, che Lina definisce la “zarina di Milano”), scritto con Carlo Mazzoni (direttore di Lampoon), lo scrive a chiare lettere. Dopo quarant’anni dall’uscita del primo Bon Ton, ritorna su quei temi che l’hanno sempre appassionata e che si possono tradurre in quella grazia con cui si interpreta il colore del tempo. “Ogni tanto può essere piacevole una conversazione casuale con un amico o una amica, che ci dice, magari senza accorgersene, quella piccola cosa che fino ad allora ci mancava”. E, soprattutto, “i tempi sono così cambiati e quello che prima era un galateo, ora è un saggio, un po’ politico, e dal galateo è saltato fuori un breviario”. Dalla A di Abbracci fino alla V di Vita è un susseguirsi di un alfabeto che spiega e racconta modi di dire, di porsi, atteggiamenti da tenere, parole, silenzi, sorrisi che ci raccontano nel modo migliore agli altri.
La temuta penna di Lina, che si esprimeva nella sua rubrica fissa sul quotidiano di via Solferino, si è, forse, addolcita, ma non mancano anche ora le sue frecciate. Alla voce Adoro: “Sinonimo di orrore, si risponde voltandosi”. Amanti: “Oggi, le donne sono più in difficoltà degli uomini, su questo argomento – perché i maschi eterosessuali stanno diminuendo a vista d’occhio – soprattutto a Milano”. Aria: “Cafona è la donna che indossa un abito per far vedere come starebbe meglio senza quell’abito addosso”. Donne: “La grande rivoluzione femminile. Io non l’avevo capita né la desideravo. Gli uomini mi piacevano così com’erano, anzi quella smania padronale la cercavo, mi dava un’idea di protezione. Le donne sono i nuovi uomini e le nuove donne sono insopportabili”. Racconta: “All’epoca mia non si dava a un signore del tu, mentre ora è molto normale, anzi lo vogliono. Ai tempi miei si diceva omosessuale con gentilezza, adesso tutto questo non esiste più ma, in compenso, esistono tantissimi fluidi perché le persone sono fluide, decidono di stare con chi gli piace”. Non mancano racconti. “Mi inventai i trafiletti di dieci righe di Lina. Andò bene. Tutti volevano esserci in quelle dieci righe – il direttore di allora, Franco Di Bella, mi disse: ‘Lina, mettici più nomi’. Io risposi: ‘No direttore, al massimo tre, quelli che ci sono devono sentirsi scelti’”. A proposito di intellettuali. “Oggi non ne conosco. Chissà se rinascono. Ai miei tempi c’era voglia di riscatto, più voglia di sapere. Negli anni Settanta tutti volevano essere intellettuali”. I radical chic? “Se lo dicevano a me, mi offendevo. Mi sembrava volessero sminuire le fatiche che avevo fatto – alle sei di mattina io ci andavo davvero a lavorare, io – però in fondo era vero, ero una radical chic. Ci offendiamo quando ci dicono la verità. Il radical chic era il nobile comunista, il miliardario di sinistra”.
Il radical chic era il conte rosso che difendeva i sindacati. “Era una maniera per uscire dalla politica ma restarci dentro. Carlo Ripa di Meana faceva il commesso da Feltrinelli ma si faceva chiamare conte, andava in giro come rossissimo, era l’amore di Susanna Agnelli, stava con Gae Aulenti, era bello. Fiorucci era popular glamour – guardava a Londra. Miuccia Prada ha definito l’estetica borghese e milanese, ma si offende se la chiami borghese perché, nella sua realtà personale e ammirevole, si riconosce comunista. I radical chic oggi non esistono più perché non esiste più la sinistra”. Le parole da usare e quelle no. “Non si dice fine, non si dice distinto – tantomeno squisito. Si capisce subito che chi parla non è né fine né distinto. Chi dice squisito, probabilmente è nevrotico. Non si usano le espressioni che vanno di moda e che si sentono dalla bocca di troppa gente: negli anni Sessanta, ‘divino’. nei Settanta, ‘cazzo’ e ‘allucinante’; Ottanta, ‘a livello di’, ‘al limite’, ‘cioè’. Anni Novanta, ‘come andiamo?’. Duemila, Millennials: ‘Ciao zio’. La Generazione Zeta: ‘Hi Guys’. L’espressione da smettere subito, per tutti, perché forse sempre la più diffusa, è una soltanto: ‘sono stanco’”. Da bandire il termine anziani: “Siamo tutti vecchi che vogliono ancora inventare il futuro”.
Chi sono oggi le dame di società a Milano? “Una volta c’erano Rosellina, Giulia Maria, Gae, Inge. Oggi non sono forse le donne, ma forse i gay a governare la società? Ti ha chiamato Franzin? Dino Franzin riceveva sempre – una sera ’ ricchi, un’altra sera gli intellettuali. Non li mescolava mai. Mandava a prendere Camilla Cederna – gli altri venivano per i fatti loro. Essere invitati da Franzin non era come essere invitati da Gae Aulenti – un invito suo era di qualità intellettuale superiore. Gae invitava solo cinque persone alla volta”. Quasi una preghiera: “Ricordatevi sempre che essere eleganti non è una questione essenziale. Essere educati, sì”.