Gran Milano
“Brescia città aperta”, un libro racconta la capitale della cultura
Marco Archetti, nel suo reportage, si rifà a Guido Piovene e al suo "Viaggio in Italia" e ci narra la capacità di una tradizione che è in grado di non buttare né censurare il passato ma assorbirne la vita
La civetteria del bresciano è di definire prosaici i suoi concittadini. Grandi lavoratori, ma tirchi, caparbi e tradizionalisti nelle idee amministrative”. Cosa c’è di meglio, per iniziare raccontare la propria città, che rifarsi a un grande come Guido Piovene, al suo Viaggio in Italia? E’ quello che giustamente fa Marco Archetti, all’inizio di Brescia città aperta - Reportage da una capitale della cultura (Enrico Damiani Editore). Quanto ci sia di immutato (il lavoro, caparbio) e quanto invece di cambiato (le idee amministrative) rispetto agli anni di Piovene è quel che l’occhio e l’orecchio attenti di Archetti provavo a scoprire. In mezzo, c’è quella tradizione – la capacità di non buttare né censurare il passato ma assorbirne la vita – che sono un caposaldo di Brescia, il fondamento su cui è costruita anche la attuale visione di “capitale della cultura”. (Assieme a Bergamo, città cugina e gemella, che dell’Anno della cultura assieme detiene le chiavi). “Uno sguardo che passa, osserva e racconta”.
Archetti lo presenta come “semplicemente, un reportage”. Ma se l’autore è un osservatore che ama il controluce e il controcampo, nemico giurato del consueto, e un raccontatore che ama il dettaglio, nemico delle “narrazioni”, se insomma è Marco Archetti, bresciano e cittadino di altri mondi, nonché membro della famiglia fogliante, il libro che ne esce vale la lettura, e la scoperta inconsueta di una città piena di cose e di buone idee.
Diceva dunque Piovene: “Quella di Brescia è una delle province più interessanti, contrastanti, sorprendenti d’Italia”. Era il 1957. Sessantasei anni dopo alcune cose sono evidenti – la ricchezza e il ruolo, la classe politica e amministrativa, i musei, la trasformazione urbana – altre sono invece da cercare con l’occhio che solo chi torna alla sua “casa” dopo un lungo girovagare fisico e mentale può fare. Archetti sa che ognuno ha nella propria terra la risposta da cercare. Lo insegna Calvino, nelle Città invisibili: “Di una città non godi le sette o settantasette meraviglie, ma la risposta che dà una domanda”.
Che domande e che risposte dà, allora, Brescia? Ora che, girata la boa dei primi sei mesi da Capitali, Brescia e Bergamo hanno presentato, con i sindaci Laura Castelletti e Giorgio Gori, “risultati oltre le aspettative”, con 4,8 milioni di visitatori (+48 per cento sul 2022), una bella quota internazionali, quasi mezzo milione di presenze nei musei tra collezioni ed esposizioni “site specific” e sold out nelle stagioni teatrali e musicali. Per non dire dei programmi della prossima metà dell’anno. Ma non questo, al fondo, che fa di una città una “città aperta”, capace di pensiero e di respiro futuro. Archetti concentra il suo reportage sui luoghi e le persone di una cultura viva, non monumentalizzata dal bene-culturalismo né dal marketing turistico, ma capace di dare forma a una identità, a una appartenenza di persone.
Tre conversazioni danno sostanza al reportage. La prima, ça va sans dire, è con Stefano Karadjov, direttore della Fondazione Brescia Musei – la “holding”, lasciateci dire così – pubblico-privata che gestisce oggi cinque siti museali, tra i quali quel gioiello ormai noto a livello internazionale che è Santa Giulia, con il Parco archeologico romano lì accanto. Karadjov non ama parlare di “modello”, ma è evidente che il sistema bresciano sta dimostrando a tutta Italia come si possa valorizzare un patrimonio mettendo assieme, con regole e idee (“mancano ancora cinque anni” per un lavoro concluso, dice), il meglio di un intero sistema civico e anche economico.
Il secondo incontro è col teatro, un’altra eccellenza della città, il Centro Teatrale Bresciano – altra fondazione pubblica – e col suo direttore, Gian Mario Bandera, che ha portato con sé, dal 2015, una lunga esperienza di “producer” teatrale legato alla sperimentazione (il Teatro degli Incamminati con Franco Branciaroli) e di programmazione nei territori, nella provincia (Monza). Una capacità di costruire trame al di fuori del circuito spettacolo-bigliettificio che oggi fa del Ctb una luogo vivace. Infine il Teatro Grande, un gioiello che ha le sue radici addirittura nel Seicento, un colpo d’occhio che nulla invidia ai grandi templi della musica e una programmazione – concertistica, lirica, di balletto – in continua crescita, sotto la direzione Umberto Angelini, “sottile, ascetico, quasi hermanessiano”, ma “ben piantato per terra” che ha saputo, ad esempio, portare al 35 per cento di under 30 un pubblico in cui ancora ci sono famiglie bresciane che posseggono palchi dal 1810 (città napoleonica, Brescia). Insomma passato e futuro, innovazione programmazione. La risposta è una “città aperta”.