Foto Ansa 

GranMilano

L'Odeon e tutto il resto che ci siamo persi, nel Corso del cinema

Fabiana Giacomotti

Aperto nel 1929 e chiuso dopo quasi un secolo di attività, è l'ultimo superstite degli anni in cui corso Vittorio Emanuele veniva definito “la Broadway italiana”

Quando l’Odeon fu pronto per l’apertura, nel 1929, con le sue grandi sale e il motto di gesso “ex tenebris vita” che oggi tutti citano quasi fosse un monito, o forse una reliquia da preservare (non lo sarà certamente, arrivano le solite pizze scongelate e i vestiti e una vaga promessa), a pochi chilometri di distanza, in quella via Moretto da Brescia dove anni dopo sarebbe andato ad abitare il clan dei Crepax, aveva già chiuso da tempo, dopo un tentativo di trasferimento alla Bovisa, la più importante casa di produzione cinematografica che il nord avrebbe mai conosciuto, la Milano Films (logo la sagoma del Duomo, come Alemagna), che aveva prodotto quasi tutte le pellicole della compagnia Duse e tenuto a battesimo una diciottenne Paola Borboni in una riduzione delle Lettere di Jacopo Ortis, oltre ai primi tentativi registici di Mario Camerini. Questo per dire alle prefiche che nelle ultime settimane sembravano smaniare per le poltrone della Sala 1 dell’Odeon e che abbiamo testato per l’ultima volta lunedì sera, senza poi trovare quella gran ressa che ci aspettavamo e che comunque a noi non sembravano mai abbastanza pulite (la volta Déco era favolosa, certamente, ma nessuno usa più i vellutini dove è permesso mangiare popcorn), già in quel 1929 ci eravamo giocati molte più sale cinematografiche e molti più produttori di quanti potessimo permetterci.

Non è un caso che nell’elenco dei soci della gloriosa Milano Films si trovino le stesse famiglie Porro, Ajroldi di Robbiate e Visconti di Modrone che finanziavano la Scala e che il Piermarini si tenne invece stretti. A ben guardare l’Odeon, sorto al posto della Centrale elettrica santa Radegonda che a sua volta era nata sulle macerie della Confetteria Baj dove a metà dell’Ottocento Giulio Ricordi andava a ordinare il panettone più pregiato della città, era l’ultimo dei grandi cinema costruiti prima e fra le due guerre mondiali, e se vogliamo neanche il più glorioso. Il paragone che oggi tutti fanno con il mitico Tuschinski di Amsterdam, trasformato in museo, ci pare anche improprio perché quel titolo avrebbe dovuto spettare, semmai, al Corso “con lo schermo in vetro smerigliato” che negli anni del muto aveva sostituito, primo di tutti, l’innaffiatura del telone a scopo di opacizzazione, necessaria per evitare che il punto luminoso del proiettore, all’epoca posto dietro lo schermo, incomodasse la visione. Chiunque abbia meno di quarant’anni non ricorda il Corso “dal nobile atrio” che aveva accolto la Prima di “Teresa Confalonieri” con Marta Abba (per suscitare la dovuta indignazione negli animi degli spettatori, la produzione aveva vestito delle comparse da soldato austriaco) e nemmeno le grandi prime degli anni Settanta e Ottanta del Novecento, antecedenti cioè alla sua trasformazione in megastore di Zara (sì, sono sempre vestiti), che per prima cosa aveva cancellato il motto anche lui inscritto nella sala di proiezione, preso dal Dodicesimo canto del Purgatorio (“Non vide me’ di me chi vide il vero”). Ed è stato megastore di abiti di lusso anche l’ex cinema Excelsior, unica impresa nel comparto di Stefano Beraldo, che chiuse la collaborazione con Antonia Giacinti nel 2017, così come lo saranno probabilmente altre sale in quel prossimo futuro che, l’abbiamo capito, non si intrattiene al cinema, ma mangiando a quattro palmenti e facendo shopping di vestituzzi altamente insostenibili. L’Odeon degli ultimi anni dava quell’impressione di grandeur non solo per le dimensioni, sovradimensionate per questi tempi di salette modello amateur come all’Anteo dove i milanesi che non scappano per il weekend assistono alla prima proiezione del sabato mattina, rigorosamente in lingua originale e serviti di caffè e brioche, ma perché era, appunto, un superstite degli anni in cui corso Vittorio Emanuele veniva definita “la Broadway italiana” e un po’ lo era.

A leggere le cronache degli anni a cavallo fra l’Otto e il Novecento, ma soprattutto dopo la Seconda guerra mondiale quando si iniziò a scavare, pare che non sia esistito un solo palazzo del corso, ambo lati, sprovvisto della sua brava sala di proiezione, talvolta realizzata provvisoriamente in legno (per lungo tempo il Corso si era chiamato, appunto, “Provvisorio”), oppure ricavata da un vecchio deposito di pianoforti che è la storia più fascinosa, e si riferisce a un’altra sala ignota anche alla X generation, l’Ariston, o l’Ambasciatori, primo cinema sorto sottoterra dopo il Pavillon Doré, cinema d’emergenza dove, a vedere le operazioni chirurgiche, pare si impressionasse anche l’operatore. Cercando qui e là fra libri, memorie di famiglia e appunti, nei giorni scorsi è saltato fuori niente di meno che il biglietto di invito alla prima proiezione de “I trasvolatori dell’Atlantico”, con l’intervento “in persona” di Charles Lindbergh e Arturo Ferrarin dell’epico volo Roma-Tokyo: 23 Aprile 1930. Invitavano l’Istituto Luce e la Metro Goldwyn Mayer (i rapporti fra il regime e gli Stati Uniti erano ancora ottimi, e Mussolini mirava a qualificare la giovanissima aviazione italiana), e la direzione dell’Odeon ricordava ai gentili spettatori di conservare il biglietto, perché al termine della proiezione sarebbero stati estratti i nomi dei due fortunati vincitori di un volo con l’asso di Thiene. Per l’occasione, Milano venne sorvolata anche da un aeroplano che lanciava migliaia di fogli pubblicitari, mentre Filippo Sacchi sul Corriere della Sera vergava un inatteso paragone fra le storie narrate sulle “nervose ali di Icaro” e quelle sulle alucce “di Cupido”, che mai avrebbero potuto competere con “le semplici e genuine emozioni della piana narrazione documentaria dl alcuni fra i più illustri ardimenti che la storia ricordi”. Viene un moto di tenerezza quando si pensa che, moltissimi anni dopo, venne organizzata una serata a inviti per la Prima di quel bruttissimo film che è “Australia”, dove tutte le scene erano visibilmente realizzate in digitale e gli aerei sembravano esattamente quello che erano, cioè modellini (invitava Ferragamo, avevano calzato Nicole Kidman, le scarpe erano la cosa più bella del film).

Chiunque abbia vissuto a Milano anche di sguincio, anche per un mese, conserva un piccolo o grande ricordo legato all’Odeon: i nonni le grandi Prime, fino a Spielberg, i giovanissimi Lady Gaga per “House of Gucci”, dove ampio spazio veniva lasciato al personaggio di Rodolfo Gucci, negli anni Trenta divo dello schermo come Maurizio d’Ancora, disgraziatamente affezionato al cinema-teatro Manzoni dove nel 1968 aveva presentato un documentario autobiografico affollato di belle signore. Contrariamente al Manzoni, l’Odeon non aveva mai fatto parte delle proprietà di Silvio Berlusconi, che però amava il cinema e le Prime cinematografiche, dove aveva modo di dispiegare le sue note abilità di intrattenitore e, all’occorrenza, crooner. Se ne accorsero nel 1990 gli invitati alla Prima di “Un tè nel deserto” di Bernardo Bertolucci: co-produceva la Silvio Berlusconi Communications, distribuiva la Penta (Medusa film sarebbe nata nel 1995). Raccontano gli astanti che quello che era ancora “il Cavaliere” afferrò il microfono, spoilerò tutto quel che si poteva lecitamente spoilerare e raccontò la carriera di Bertolucci come se quel genio del racconto fosse una sua creatura. Lo fece con il consueto garbo, dunque nessuno se ne ebbe a male.

Chiosa: se l’Odeon vi piaceva così tanto, avreste potuto andarci più spesso e non metterlo nelle condizioni di vendere. Lamentarsi ex post non serve.

Di più su questi argomenti: