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GranMilano

Qui c'era la Chinatown del tessile, ma ora via Sarpi è una food street

Dario Di Vico

Radicale cambio commerciale, gentrification, boom di locali e di pubblico (milanesi e turisti). C’è già chi si lamenta

C’era una volta in via Sarpi, nella Chinatown milanese, la vendita all’ingrosso di capi di abbigliamento che finivano sulle bancarelle dei mercati rionali o nei negozi della provincia italiana. Ora molte di quelle ditte si sono delocalizzate a Lacchiarella o Agrate Brianza e al loro posto si è scatenato il festival degli investimenti food. Il processo di spostamento dell’ingrosso era iniziato prima del Covid ma subito dopo ha conosciuto una decisa accelerazione e la diaspora ha profondamente cambiato il look e la sostanza di Sarpi diventata, in un tempo tutto sommato veloce, tra le principali street food di Milano. Oggi la Chinatown ambrosiana è un ribollire di nuove iniziative imprenditoriali puntate sul cibo e non solo di matrice cinese. I vecchi imprenditori del tessile-abbigliamento sono stati sostituiti da altri: le ricche famiglie asiatiche hanno pensato bene di investire nel food e in particolare sul vino e gli aperitivi. Sono sorte così, una a fianco all’altra, enoteche e take away come se piovesse. La spinta iniziale ovviamente è arrivata con i dehors ma è in continuo divenire: non passa settimana che non apra un nuovo punto vendita di cibo e il passaggio successivo sarà quello dell’arrivo delle catene commerciali. Kentucky Fried Chicken c’è già, qualche catena italiana (i gelati Mancuso) è arrivata insieme a una società taiwanese che vende bubble tea. Da segnalare una caffetteria ad hoc per chi vuole giocare e accarezzare i gatti mentre consuma la sua bevanda, ma hanno piena cittadinanza anche il sushi e la cucina coreana.

Insomma la vecchia Chinatown ha cambiato pelle ed è diventata un quartiere multietnico cool specializzato nella somministrazione veloce di cibo che ha incontrato il favore dei consumatori italiani, seduti fianco a fianco con i giovani cinesi. Il prezzo più abbordabile (nei take away ci si sfama con ravioli e birra con 10-15 euro mentre nei ristoranti cinesi si va dai 20 ai 40) ha mosso molto e ha attirato l’attenzione del consumatore milanese che ha paura di essere spennato in un ristorante italiano. I volumi dei frequentatori di Sarpi in questo modo si sono pressoché quadruplicati e nel weekend si fatica a camminare per la strada. Oltre ai normali frequentatori del quartiere arrivano infatti milanesi e lombardi in gita, che passeggiano nella Chinatown e fanno la loro esperienza di consumatori dello street food. E anche nell’agenda dei turisti stranieri che affollano Milano una puntata in Sarpi è d’obbligo.

Assieme agli aspetti commerciali meritano una sottolineatura elementi di sociologia spicciola: aumentano le coppie miste adulte (soprattutto maschi italiani e donne asiatiche) mentre tra i giovani la combinazione inter-etnica è più diffusa grazie (dicono) a una maggiore apertura delle famiglie cinesi rispetto al passato. Il record della coda più lunga nel weekend è sempre della Ravioleria che ha comprato successivamente la storica macelleria Sironi e ha costruito le sue fortune sulla combinazione tra materie prime italiane e cooking cinese. Ma è interessante sottolineare come si inizino a trovare camerieri italiani che lavorano per ditte cinesi, si dice perché queste ultime faticano a trovare connazionali da assumere e comunque preferiscano gli italiani per una migliore accoglienza dei clienti. Molti proprietari asiatici lavorano però direttamente nella propria attività per abbassare i costi visto che gli affitti hanno raggiunto livelli stratosferici. Per un negozio di 30-40 mq. si pagano anche tra i 4 e i 6 mila euro di pigione che per i locali più grandi possono arrivare anche oltre i 10 mila. Secondo Francesco Wu, presidente onorario dell’associazione Unic, “i due terzi dei proprietari dei negozi sono italiani che non hanno venduto i loro vecchi spazi e oggi fanno il mercato”. Sempre Wu racconta come Chinatown di ieri fosse anch’essa caotica per i tanti camion che scaricavano le balle di merci ma anche più popolare. Gli operai cinesi vivevano in zona mentre adesso si sono dovuti trasferire fuori per star dietro ai costi. “C’è stata una gentrificazione anche dentro la comunità cinese”. I valori immobiliari di Chinatown dopo il Covid si sono impennati e si è arrivati a 8-9 mila euro a metro quadro, ma la trasformazione così veloce non è stata omogenea. Sarpi è una cosa, le vie laterali un’altra, vuoi dal lato del successo commerciale delle attività vuoi per i prezzi delle case. Accanto al boom del cibo a basso prezzo e della gita in Sarpi per le famiglie bergamasche o varesotte, si segnala anche l’apertura di qualche timida iniziativa culturale come il Teatro del Borgo di via Verga.

Tutto bene dunque? Milano ha come le grandi città globali la sua Chinatown sorridente e felice dove si passeggia, si mangia e ci si diverte senza distinzioni di età? No, non è così. Gli spazi di Sarpi alla fine sono stretti, i visitatori si accalcano solo in una-due vie ed è esploso anche qui il mal di movida. La sera e la notte Chinatown si riempie di italiani che vanno per enoteche, giovani cinesi alla caccia di musica e birra a basso costo e di teenager di altre etnie come i filippini. Il tutto, sommato, genera una situazione che fa storcere il naso alla comunità italiana che risiede in Sarpi, ne era arc-contenta e orgogliosa ma adesso impreca contro la delocalizzazione dell’abbigliamento. Ben due associazioni, ViviSarpi e Sarpiwest, hanno partecipato alla conferenza stampa delle vie della malamovida milanese degli scorsi giorni per protestare, visto che anche nei giorni del solleone d’agosto con Milano deserta l’unica strada delle bevute rimasta in attività era proprio Sarpi. Il problema è la quantità di giovani che fanno le ore piccole con gli inevitabili schiamazzi ma anche e forse di più la straordinaria produzione di rifiuti originata dai takeaway. Che ovviamente supera in gran quantità la capacità dei cestini e per questo motivo è sorta un’altra iniziativa spontanea (Sarpipulita) che ha visto i residenti acquistare cestini-reggisacchi aggiuntivi e premere sull’Amsa per una maggiore presenza. Il risultato è che quello che era considerato il paradiso “contemporaneo” di Chinatown agli occhi degli italiani del borgo oggi viene rimesso in discussione, cade il mito e la pratica è destinata a finire anch’essa sull’affollata scrivania di Beppe Sala.

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