Andrea Dellabianca, presidente della Compagnia delle Opere - foto dal sito dell'associazione

Gran Milano

Arriva una Compagnia delle opere nuova che vuole fare squadra, dice il presidente

Fabio Massa

Il nuovo numero uno dell'associazione al Foglio: "Quello che ha sempre proposto Cdo è avere un luogo dove poter condividere le scelte dell’azienda, un luogo dove ci si può confrontare liberamente con altri imprenditori e professionisti, una rete di relazioni positiva"

Milanesissimo, capelli corti, occhiali. Il physique du rôle di Andrea Dellabianca, nuovo presidente della Compagnia delle opere, pare cesellato sull’identikit tipo dell’imprenditore meneghino. Lui ci gioca pure un po’ e scherza col Foglio: “Mia moglie è in parte toscana e abbiamo una tenuta agricola. Dopo mezza giornata passata là vado in cerca di qualche semaforo”. Poi però torna serio, e tra una chiacchiera sulle sue origini (“Sono cresciuto nel Vigentino, e ci sono affezionato. Ho studiato ingegneria farmaceutica“) e una sulla sua azienda (“Ho una realtà di noleggio a lungo termine che opera in campo nazionale e che adesso è presente anche in Spagna”), delinea le parti forti del suo mandato. “Il modello organizzativo della Compagnia delle opere prevede che le sedi locali abbiano il rapporto con i propri associati, quindi con il territorio. Incontrano gli associati e sviluppano partnership con le altre Camere di Commercio come avevamo iniziato a fare con la mia presidenza su Milano”. Aveva preso il posto di Guido Bardelli nel capoluogo, e ora ha preso il suo posto come presidente nazionale. “Tra una settimana mi dimetterò dalla Cdo Milano. Per un anno circa ci sarà continuità. Prenderà il mio posto l’attuale vicepresidente Piergiorgio Orsi, costruttore di Cernusco, che conosce già tutte le dinamiche e tutte le operatività”.
 

Ma che cosa vuol dire, oggi, essere presidente della Cdo? Ci fu un periodo il potere politico e di gestione del modello Formigoni, in Lombardia ma anche oltre, ha trascinato – o si è basato, per meglio dire – su una rete ampia ed efficiente di sussidiarietà, aiuto alle imprese, profit e non profit con una visione che è stata a lungo innovativa. Oggi il panorama e gli interlocutori sono cambiati. “Il passaggio nazionale significa avere uno spunto di guida ideale e di contenuto, di mission dell’associazione, avere a che fare con tutte le sedi italiane ed estero. Ho incontrato recentemente il ministro Urso: il governo ha re-ingaggiato un tavolo di associazioni perché è prevista una legge annuale di micro e piccole medie imprese e quindi hanno organizzato questo tavolo per sollecitare le associazioni a dire la loro”. Che cosa chiedono le aziende al lavoro di Cdo? “La Cdo non è una associazione datoriale, non ha un contratto di lavoro. Quello che ha sempre proposto Cdo è avere un luogo dove poter condividere le scelte dell’azienda, un luogo dove ci si può confrontare liberamente con altri imprenditori e professionisti, una rete di relazioni positiva”. Poi ci sono le convenzioni, come quelle bancarie. “E’ ancora oggi uno degli asset principali della Cdo. Ma ci si associa per i più svariati motivi, per il network, la vita associativa, anche per un aspetto ideale che adesso stiamo riprendendo in mano. Diciamo che la Cdo non è mai stata appetibile perché distribuisce incarichi…”.
 

Si arriva al punto. È tanto tempo che non si mette in luce che la Cdo ha dei valori definiti, che affondano negli insegnamenti di don Giussanie nell’attivismo di Cl. “La Cdo differentemente dalle altre ha una storia basata su una serie di valori, che per lungo tempo sono stati alla base dell’esistenza stessa della Cdo. Il legame con Cl, dal quale trae la linfa vitale quotidiana, non è mai scomparso. A un certo punto si è pensato che non fosse un valore comunicabile. Ma è sempre stato nel nostro tessuto. Noi riteniamo che il nostro ideale affondi e maturi nella nostra educazione, e che debba tornare a essere comunicato. La comunicazione è stata deficitaria negli anni scorsi”. Quando c’era Formigoni tutti usavano i termini intrapresa e sussidiarietà. Ora no. “È un valore che non è mai sparito come giudizio su quello che facevamo, oggi è necessario riprenderlo. Non è una questione di diventare confessionali, ma di portare il nostro contributo”. Forse non c’è più bisogno perché ormai la sussidiarietà dicono tutti che serve, destra e sinistra. “L’esito di quella nostra battaglia è diventato patrimonio comune. Tuttavia la sussidiarietà come concetto è di tutti, ma l’applicazione non è perfettamente maturata. Il sistema pubblico pare ancora non pronto a prendersi il rischio di una condivisione delle scelte strategiche. Culturalmente l’idea che lo Stato debba pensare a tutto perché solo così si è perfettamente onesti, si evitano i sotterfugi, esiste ed è ancora presente”.
 

La Cdo non è al massimo del suo splendore, oggi. “La rotta è un po’ invertita ma la natura di tutti i corpi intermedi è in crisi. Come tutte le realtà bisogna ripensarsi continuamente.  Stiamo lavorando. Riscontro che le istituzioni si aspettano i nostri contenuti, un’attesa positiva. Questo non ci deve inorgoglire ma responsabilizzare”. Ultima domanda su Milano. “Ha fatto un cambiamento epocale. È diventata internazionale, e ha una attrattività superiore alle proprie capacità. È purtroppo una splendida anomalia rispetto al resto d’Italia. Ora deve fare un passo fondamentale: deve cominciare a pensare di essere da traino per il territorio attorno a sé. Questa è una città molto cara, cui il problema della forza lavoro. Atm che non trova autisti è emblematico. Per questo bisogna pensare a creare zone a costo differente ma comunque belle e integrate. Il rischio è che alla fine Milano esploda”. 

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