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Troppo pochi cervelli di ritorno, colpa del nanismo delle imprese
"Abbiamo un’economia che ha rinunciato a farsi grande enunciando il principio che piccolo è bello, quindi ci siamo nanizzati. Questo significa non competere sul valore aggiunto del prodotto, ma sul costo del lavoro", spiega Maurizio del Conte, porfessore ordinario alla Bocconi
Il professor Del Conte non è entusiasta (per usare un eufemismo) del decreto sul rientro dei cervelli in fuga, per via fiscale, voluto dal governo Meloni alla fine dello scorso anno e che in realtà ritocca al ribasso i precedenti sgravi. “Il mio giudizio è complessivamente non positivo, ma non nascondo che su certe dimensioni possano esserci degli aspetti positivi”, puntualizza Maurizio Del Conte, ordinario di Diritto del lavoro all’Università Bocconi, nonché presidente di Afol Metropolitana (l’agenzia dei comuni della Città metropolitana dedicata alla formazione).
“Spesso si parla di ritorno di cervelli ma in realtà si sta parlando di competenze non particolarmente raffinate. I requisiti (per ottenere sgravi fiscali, ndr) sono abbastanza piatti: basta essere stati all’estero per qualche anno, rientrare e riaprire la propria posizione in Italia per godere di un regime fiscale favorevole”. Spiega: “Mettiamoci una toppa, sembra voler dire qualcuno ma così non si risolve il problema, nel caso si curano i sintomi. Da un lato (il provvedimento del governo, ndr) non mi pare abbia prodotto un’inversione dei flussi: è un’operazione che costa molto e ha una serie di svantaggi, anche perché genera nelle stesse imprese situazioni di iniquità. Quando tu vedi un collega che, solo per il fatto che è stato all’estero, torna e guadagna – soltanto per gli sgravi fiscali – il 40 per cento in più di te, non ne capisci la ragione”.
Decreto a parte, quello della fuga dei cervelli (e della mancata valorizzazione dei nostri giovani ricercatori) sembra uno dei tanti problemi senza risposta del sistema Italia. Ma secondo Del Conte alla base di tutto ci sono i limiti del nostro modello d’impresa. “Noi non abbiamo un tessuto imprenditoriale strutturato in modo da avere questo tipo di opportunità. Abbiamo un’economia che ha rinunciato a farsi grande enunciando il principio che piccolo è bello, quindi ci siamo nanizzati. Questo significa non competere sul valore aggiunto del prodotto, ma sul costo del lavoro. E così non ci sono margini da distribuire coi salari. Ci stiamo comportando come le economie in via di sviluppo, invece di essere un’economia matura quale dovremmo essere. Questa è l’origine del problema”.
Il censimento dei cervelli segnala del resto una bilancia negativa: secondo i dati Istat e altre rilevazioni sono circa 5.000 i giovani che ogni anno lasciano Milano, mentre i rientri sono circa 2.000 (dunque non è esatta la narrazione secondo cui i giovani fuggono e basta), ma il tema economico pesa: “La questione salariale è alla base di questa fuga, basta guardare le tabelle di comparazione dei diversi profili professionali in Europa, rispetto a quelle italiane e ci rendiamo conto che c’è un differenziale quasi sempre a nostro sfavore. Noi paghiamo meno”, spiega Del Conte.
Il provvedimento dell’esecutivo sul ritorno dei cervelli non sembra convincere – per motivi opposti – nemmeno i diretti interessati. Marco De Giovanni è un ricercatore specializzato nello studio della migrazione di cellule immunitarie, con una profonda competenza in tecniche avanzate come la microscopia intravitale e la trascrittomica spaziale, che nel 2019 ha deciso di andare negli Usa, per tornare nel settembre del 2023. “Il mio rientro – spiega al Foglio – è stato favorito anche da condizioni fiscali vantaggiose, con esenzioni che all’epoca arrivavano fino al 90 per cento. La recente decisione di ridurre queste agevolazioni mi sembra un grave errore da parte del governo attuale. Tali incentivi sono vitali per attrarre ricercatori che, come me, non aspirano di certo a ricchezze, ma a contribuire scientificamente al nostro paese. Negli Stati Uniti, nonostante uno stipendio quasi doppio rispetto all’Italia, il costo elevatissimo della vita a San Francisco mi collocava al di sotto della soglia di povertà. Per questi motivi, ritengo che questa scelta del governo rischi di scoraggiare il ritorno di molti ricercatori italiani ed invito il governo attuale a fare una profonda riflessione a riguardo”.
De Giovanni spiega il suo percorso: “Dopo il dottorato presso l’Università Vita-Salute San Raffaele, ho sentito la necessità di arricchire la mia esperienza all’estero, un passo quasi obbligato nel campo biomedico per comprendere diverse metodologie di ricerca e per mettermi alla prova in contesti internazionali. La scelta è ricaduta sugli Stati Uniti, dove l’avanzamento tecnologico e gli investimenti nel settore sono superiori rispetto all’Europa, offrendo un terreno fertile per crescere professionalmente e interagire con scienziati di tutto il mondo. Questa esperienza mi ha qualificato a sufficienza per assumere il ruolo di capo laboratorio”. Poi il rientro.“Il mio ritorno in Italia, presso la divisione di Immunologia, Trapianti e Malattie Infettive dell’IRCCS Ospedale San Raffaele – racconta De Giovanni – è stato motivato dalla scoperta che il nostro paese non manca né di talento né di opportunità di ricerca di alto livello, come dimostrato dalla comunità dell’Università Vita-Salute. Inoltre, sono riuscito ad ottenere finanziamenti prestigiosi per la mia ricerca in Italia, come il Giovanni Armenise Harvard Foundation Career Development Award, che mi ha permesso di rientrare ed aprire il mio laboratorio presso San Raffaele, e altri importanti grant di ricerca come l’ERC Starting Grant e L’AIRC Start-Up Grant. Questi finanziamenti mi permettono di svolgere ricerca di alto livello, dove in genere l’accesso a cospicui fondi di ricerca è altamente limitato rispetto agli Usa. Con queste premesse, non ho avuto alcun dubbio nel tornare a casa. Detto ciò, mi auguro per il futuro un grande sforzo dal governo italiano per migliorare la situazione dei fondi di ricerca. La ricerca è futuro, non dovremmo mai dimenticarlo”, conclude il ricercatore.