Foto via Facebook/ Scuola Sociale Sportiva - Brescia

Gran Milano

C'è un Real Madrid, quello vero, che fa giocare i ragazzi di Brescia

Davide Perillo

Come è nata la collaborazione tra la Fundación educativa del club e i volontari che si occupano di minori fragili

Ora che la stagione è finita e la maglia bianca da merengue è nell’armadietto, assieme alle scarpe con i tacchetti, i genitori di Gurkirat, 10 anni, trapiantata dal Pakistan a Brescia, si guardano indietro e pensano che hanno fatto bene a lasciarla fare. “Il padre all’inizio non era d’accordo e lei non osava. L’abbiamo convinta a provarci. E’ rimasta. E anche lui, alla fine, ha cambiato idea”. Parola di Rachele Gorni, coordinatrice del progetto che ha portato Gurkirat e altri 55 bambini e ragazzi di tre quartieri della periferia bresciana a scendere in campo con la divisa del Real Madrid.


E’ la Scuola Sociale Sportiva, nata dalla collaborazione tra la Fundación Real Madrid, ramo socio-educativo del club più famoso del mondo, e la Nuovo Cortile, una cooperativa sociale di Rodengo Saiano, piena Franciacorta. Quattro squadre (tre di calcio e una di basket), due allenamenti a settimana con allenatori istruiti dalla Fondazione, poi compiti, doposcuola, qualche uscita in città. Tutto sotto l’ombrello di una partnership sorprendente: non ti aspetti di trovare le maglie dei galacticos nei campetti degli oratori di provincia, indossate anche da ragazzine con il velo. “Ma noi volevamo andare nelle periferie, come chiede Papa Francesco: dopo il Covid c’è ancora più bisogno”, racconta Simona Carobene, direttrice generale di una cooperativa nata quasi quarant’anni fa per occuparsi del recupero di tossicodipendenti e allargatasi man mano al disagio psichico, al reinserimento lavorativo e all’educazione. Lei con la Fondazione Real Madrid aveva già collaborato quando lavorava in Romania, su un’altra frontiera della povertà. “C’era un rapporto di fiducia. Gli abbiamo chiesto di coinvolgersi anche qui”. 

  
Il risultato è questo progetto semplice, ma di impatto. A settembre un training degli istruttori con un allenatore della Fundación, a ottobre la proposta negli oratori dei quartieri Don Bosco, Lamarmora e poi San Polo (33 mila abitanti in tutto, fragilità e disagio in mille varianti, quota di studenti stranieri o italiani “di seconda generazione” nelle classi superiore al 20 per cento). “Siamo partiti con tre iscritti, ma ci siamo allargati in fretta”, racconta Gorni. Raccogliendo adesioni da famiglie bengalesi e pakistane, egiziane e argentine. E poi cinesi, egiziane, tunisine… “Di italiani ce n’è solo una”. E se chiedi il perché, la risposta te la dà don Filippo Zacchi, 29 anni, vicario della parrocchia di Sant’Angela Merici: “La Scuola si rivolge a chi non ha altre opportunità. I ragazzi italiani spesso hanno già i pomeriggi scanditi: ripetizioni, corsi… Questi non hanno niente”. Tranne l’oratorio. Che pure con tutte le difficoltà per trovare volontari ed educatori, non solo i preti, “rimane un punto di riferimento anche per chi è di altre religioni e culture. Ora ho davanti 200 bambini dell’oratorio estivo: un terzo sono stranieri”. Durante l’anno c’era già un doposcuola pomeridiano, organizzato da parrocchia e Comune. “Ma il vero problema dei ragazzi è che sono soli. Le famiglie, quando ci sono, lavorano. Molti di loro non hanno figure che li seguono”.


Periferie, appunto. In cui può capitare che il Comune e pure il Centro islamico locale mettano una buona parola, che tra bandi e finanziamenti si trovino i soldi per il materiale e gli istruttori. E che il Real Madrid ci metta del suo non per andare a caccia di talenti, come per tanti clinic o scuole calcio in giro per il mondo, ma per “promuovere l’inclusione di giovani a rischio”, come ha spiegato Rosa Roncal, direttore dell’Area internazionale della Fundación, nella sua visita a Brescia, lo scorso aprile: “La Fondazione rappresenta la solidarietà del club nel mondo. Lavoriamo sull’educazione e sulla cooperazione allo sviluppo. Attraverso gli allenamenti, educhiamo all’autostima, all’autonomia, al lavoro di squadra. Valori dello sport che servono per tutta la vita”. 

    

I risultati? Per quelli sportivi si vedrà (“la prima amichevole l’hanno persa 16-3, ma già adesso è un’altra cosa”, racconta Gorni: “Non li vedi più sciamare sulla palla, seguono i ruoli…”). Ma sulla parte più importante, l’impatto è netto. “Abbiamo parlato con i loro insegnanti. Stiamo raccogliendo i dati, ma in molti ci hanno segnalato miglioramenti, soprattutto nel comportamento. E nessuno di loro ha lasciato la scuola”. Cosa per niente scontata, in un contesto in cui, raccontava a febbraio il Giornale di Brescia, l’abbandono scolastico riguarda il 3,9 per cento degli studenti italiani, il 9,8  per cento degli stranieri nati in Italia e il 14 per cento dei ragazzi immigrati (dati degli ultimi quattro anni). “In più, anche se magari non ti dicono ‘grazie’, si sono affezionati”, aggiunge Rachele Gorni: “In qualche modo, siamo diventati delle figure di riferimento. Ci aspettano, ci ascoltano. Hanno incontrato un altro ambito, oltre alla scuola, in cui gli è chiesto di rispettare le regole e gli altri. Nel nostro piccolo, aiutiamo a crescere dei cittadini che diventano parte della società. E aiutiamo destini che forse sarebbero segnati”. 

    

In tanti casi è cambiato anche altro. “L’atteggiamento verso la vita”, dice don Filippo: “Impegnarsi per qualcosa, essere cercati da qualcuno che quando non ci sei chiede di te, per tanti di loro è un’esperienza nuova”. Un esempio? “C’è un ragazzo che a 14 anni è ancora in prima media. Abbiamo iniziato a conoscerlo, e dopo un po’ siamo andati nella sua scuola, con l’educatore. Abbiamo scoperto una situazione difficile: il padre è via per lavoro, la madre non capisce ancora l’italiano. Gli insegnanti non avevano nessuno con cui parlare di lui. Ora ce l’hanno”.


E’ la condizione più importante che la Fundación chiede ai partner, in questi progetti che in Italia si vanno allargando (c’è qualcosa del genere anche a Milano, al Vigentino): “I ragazzi devono andare a scuola, sempre”. Varrà pure per quelli che si aggiungeranno, perché in cantiere c’è l’idea di far partire un’altra squadra, per ragazzi più grandi. “Ma l’aspettativa, per noi, è che il progetto cresca e si consolidi”, dice Carobene: “Nelle periferie ci sono mille problemi, ma c’è una ricchezza umana enorme. E noi vogliamo continuare a esserci”.