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Storia di un disastro politico a Milano: dalla finale di Champions allo stallo sul Meazza
Anni persi tra una città inebetita, club con poche idee e carrellate di dibattiti insulsi che hanno affossato progetti strategici milionari. Intanto a Manchester nasce il “New Trafford” da due miliardi, in grado di generarne altri sette
La cronaca di una morte annunciata, cioè la prevedibile revoca da parte dell’Uefa della finale 2027 di Champions a Milano, perché il Comune ha comunicato di non essere in grado di assicurare in che condizioni sarà il Meazza tra tre anni – abbattuto, in ristrutturazione, o tale e quale ad ora, cioè agibile solo in base a una serie di deroghe europee – è un finale grottesco che getta discredito sulla città, sulla sua disastrosa politica e sulla sua pavida e inconcludente Amministrazione, incapace di guidare i suoi cittadini sulla strada delle grandi scelte trasformative.
Per inquadrare la dimensione di questo disastro basta un paragone: nel giorno in cui la Uefa metteva in castigo Milano, perché in cinque anni, dal 2019 quando le società di Inter e Milan proposero il progetto per un nuovo stadio, non ha concluso niente, in Gran Bretagna il Manchester United annunciava il progetto di ristrutturazione totale (proprio una trasformazione) dell’Old Trafford, uno stadio iconico e leggendario quanto il Meazza, e la completa trasformazione urbanistica dell’area circostante. Il progetto “New Trafford” (110 mila posti, qui invece si parla di diminuire la capienza) sarà “il più grande rinnovamento nella storia del club”, un investimento del valore di 2 miliardi di sterline e capace, secondo le stime, di generare un impatto di 7 miliardi di sull’economia inglese. A Milano, invece, dopo cinque anni tutti rischiano di restare col cerino in mano e sono sfumati anche i 34 milioncini di indotto che la finale avrebbe portato, secondo Confcommercio.
Non è solo un disastro sportivo o economico: è un disastro politico di cui il sindaco Beppe Sala si rende ben conto (e avrebbe voluto e forse potuto evitarlo). Sala ora rischia di avviarsi alla fine del mandato non con un cantiere aperto, ma senza nessun cantiere. Come ha scritto il Corriere: “Certo che se Sala avesse accettato il progetto dei due club del 2019, la finale si sarebbe disputata nel nuovo stadio”. Per questo il sindaco, da tempo, ha puntato le sue fiches sulla vendita a privati (i due club) di San Siro, ipotesi che aveva evitato cinque anni fa, e ha chiesto alla Agenzia delle entrate una valutazione. La quale, en passant, viaggerebbe dai 70 a forse 100 milioni. Tutto compreso: impianto e area circostante su cui le due società avrebbero il permesso di edificare. Ovviamente, i problemi non sono solo di Sala – la sua maggioranza e la sua giunta, quando non remano contro qualsiasi soluzione, non sembrano francamente interessati del pasticcio: probabilmente non sono mai stati a Manchester – ma è anche delle due proprietà ora americane. Che rischiano di rimanere bloccate in uno stadio inadeguato – l’ad dell’Inter Antonello aveva stimato in 50 milioni il gap negativo del reddito da stadio rispetto ai grandi club europei – o prigionieri di progetti vaghi e faraonici, difficili da finanziare e che richiederebbero anni e anni. Paolo Scaroni e Beppe Marotta lo sanno benissimo. Ma anche l’idea di comprare (finalmente) il Meazza non è semplice: 100 milioni solo per iniziare sono davvero tanti per i fondi speculativi americani. Finale o non finale, il Meazza rischia al momento di rimanere com’è: uno stadio disfunzionale, antieconomico e che non riesce nemmeno a fregiarsi del titolo di “brutalista” (neanche la sovrintendenza ci ha mai creduto). Colpa della politica milanese in gran parte, ma anche dei club. Ma, prima dei verdetti, bisogna contestualizzare.
Il disastro del caso San Siro ha molte cause, e la prima è l’humus paludoso, ideologizzato, pieno di conventicole e piccole rendite politiche che da tempo determina la società civile e politica milanese. La retorica passatista del “San Siro è bello e non si tocca” (chiedete al Bernabeu); quella ambientalista – aggrappata alla storiella dei 50 mila metri quadri di verde da salvare: il primo progetto dei club ne garantiva 90 mila nuovi, e l’ultimo di Webuild anche di più, a fronte della sistemazione della landa desolata di oggi; la retorica dei quartieri – Beppe Sala con gli 80-100 milioni di oneri avrebbe rifatto le case popolari, che invece resteranno malate, zone a rischio e invivibili, poiché il Comune soldi non ne ha. Per non parlare di tutta la narrazione anti sviluppo e anti privati che domina il nostro paese. Per farsene un’idea, basterebbe leggere un recente articolo sul Corriere di Gianni Santucci, da strabuzzare gli occhi, che sembra aver assorbito come una spugna tutti i luoghi comuni sull’argomento. Già dal titolo: “Madrid, Manchester, Parigi: stadi nuovi, di proprietà e fuori città? Un falso mito”. Dimenticando che il Bernabeu, di proprietà, è stato rifatto da cima a fondo (valore un miliardo) e che è inserito in un contesto urbano congestionassimo. Nota bene: il Real Madrid ha potuto fare l’operazione perché nel frattempo ha giocato in un secondo stadio; ma questo a Milano è impossibile perché negli ultimi vent’anni la politica ha bocciato almeno quattro progetti di nuovi stadi. Del verde s’è detto, sul fatto che lo sviluppo degli stadi faccia bene alla città bastano i casi di Londra o Manchester.
Sul valore economico per i club, sarebbe bastato fare qualche chilometro e chiedere alla Juventus o all’Atalanta. Ma il mood cittadino è questo, la consigliera verde Francesca Cucchiara ha detto che non ha senso “smantellare uno stadio perfettamente utilizzabile per farne un altro a 150 metri di distanza”. Forse non sa neppure come è fatto il campo. Siamo fermi alla retorica delle luci a San Siro. E adesso la partita è diventata, colpevolmente, anche quella di impedire ai club di andarsene (sarebbe una tragedia economica). Qualche tempo fa il Milan, con Stefano Boeri, aveva accarezzato l’idea di un nuovo impianto all’Ippodromo della Maura. Si oppose immediatamente, impiccio burocratico insormontabile, il Parco Agricolo Sud di Milano. Se guardate una cartina di Milano, potete stupirvi del fatto che l’area della Maura possa essere di competenza del Parco Sud. Ma così è Milano, così l’Italia. Insomma, in oltre un decennio di dibattiti Milano avrebbe potuto avere non uno ma due stadi nuovi, aree rigenerate, spazi sportivi aperti (è in tutti i progetti). Invece siamo al “giù le mani dal Meazza”, mentre il Comune tenta disperatamente di vendere.
E siamo ai giorni nostri. In estate Webuild, gruppo leader in progettazione e costruzione, era stato sollecitato a proporre una soluzione di ristrutturazione del Meazza fattibile e sostenibile. Il progetto è stato offerto gratuitamente al Comune, Beppe Sala ha invitato al tavolo i club. I dettagli sono stati molto ben raccontati. Sembrava a un certo punto fatta – a Webuild i club avevano posto 20 paletti tecnici, tutti rispettati – ma poi è saltato tutto. “Definitivamente in via provvisoria”, come si dice in Italia. Il perché è avvolto nella nebbia di San Siro, ma non è difficile da capire: sia la ristrutturazione pensata da Webuild, sia la costruzione di altri impianti, è sottoposta a due conditio sine qua non: la vendita a privati dello stadio, che permetterebbe alla Sovrintendenza di togliere i minacciati vincoli. L’altra condizione è che il prezzo dell’operazione sia affordable per i club. E, al momento, le proprietà americane hanno valutato che, alla fine, potrebbe essere più conveniente tornare al piano del nuovo stadio. Ma, definitivamente in via provvisoria, tutti per ora aspettano che l’Agenzia delle entrate faccia il prezzo. Poi, si tratterebbe di vendere. Pronostico: praticamente impossibile, considerando i ricorsi al Tar che pioverebbero, i citoyen pronti a bruciarsi in piazza e le elezioni comunali, tra due anni, praticamente a un passo. Nel caso che la vendita riuscisse, Inter e Milan potrebbero comunque riconsiderare il piano di Webuild, decisamente più economico e veloce. Nel frattempo Webuild aspetta: in fin dei conti, al momento, fra i partecipanti al tavolo di poker è quello che ha meno interesse di tutti all’esito della partita.