I numeri dell'economia tengono, ma il ruolo lombardo annaspa
L’assemblea di Assolombarda e le associazioni deboli. L’analisi di Andrea Colli, economista della Bocconi
La locomotiva lombarda va ma alcuni vagoni rischiano di deragliare, come l’automotive e tutto o quasi il settore della meccanica. Le imprese reagiscono ma il mondo associativo ha poche idee e fa molta fatica a tenere il passo. Lunedì, all’annuale assemblea di Assolombarda, Emanuele Orsini, presidente di Confindustria, si è mostrato compiaciuto delle proposte – in capo alla legge di stabilità – del governo Meloni: “Stiamo dialogando… abbiamo sempre chiesto che sia reso strutturale il taglio del cuneo fiscale, abbiamo visto che c'è e su questo siamo soddisfatti. Abbiamo anche chiesto interventi sul mondo della casa con la nostra proposta di un piano che preveda costi sostenibile e in parte mi pare ci sia”. Un po’ poco per un paese che galleggia su un Pil, e soprattutto se detto al cospetto del mondo delle imprese di una regione che fatica anche per le altre. Alessandro Spada, presidente di Assolombarda, ha richiamato i numeri: Pil lombardo di tutto rispetto, da 480,6 miliardi di euro (2023), tra il 2019 e il 2023, cresciuto del +6,7 per cento; export a quota 163,6 miliardi. “La nostra impresa è il motore che aggancia l’Italia al cuore dell’Europa”, “se questo territorio fosse una nazione sarebbe il decimo in Europa per Pil, grazie al nostro modello”. Il problema è che questa regione non è una nazione, non lo sarà e nessuno ha un’idea per trasformare un’affermazione solo retorica in un progetto.
Infatti poi è arrivato il cahier de doléance: “E’ urgente la riduzione della pressione fiscale, bisogna introdurre la mini Ires, è necessario rinviare lo stop al motore endotermico del 2035, a rischio 40 mila posti di lavoro”. E l’avversario diventa’Europa: serve “un fondo comune a livello europeo per le transizioni”, sopratutto green. Ma quando è arrivato al capitolo energia, Spada ha ammesso che “il nucleare è una fonte imprescindibile”. Poi c’è il nodo urbanistica di Milano, “è necessario emanare il cosiddetto decreto Salva Milano e risolvere il prima possibile l’interpretazione sulle norme edilizie ed urbanistiche che stanno bloccando la città”. Peccato che òa faccenda sia in mano al ministro delle Infrastrutture, e la latitanza del suo partito sul tema è grave. Milano e la Lombardia contano assai poco sullo scacchiere nazionale. Dove la ricetta delle imprese sembra essere sempre la stessa: dopo i 129 miliardi del superbonus 110 nell’edilizia, quelli per l’arredo e ora, di nuovo, i bonus per sostenere il mercato dell’auto elettrica coi soldi dei contribuenti.
E’ crisi di leadership, di rappresentanza o di idee nel mondo dell’impresa? “Ho registrato anch’io l’indebolimento di questo aspetto della rappresentanza – spiega al Foglio Andrea Colli, professore ordinario di Storia economica all’Università Bocconi – dove per rappresentanza penso alla capacità di esercitare pressione collettiva su temi di rilevanza istituzionale per il mondo delle imprese. Mi pare che tale capacità sia venuta meno dall’inizio degli anni 2000. Si tratta di un processo per nulla omogeneo nel paese, ci sono realtà in cui la capacità collettiva di esercitare una spinta sulla formazione di politiche industriali è ancora di un certo livello, con risultati positivi. Penso al Veneto e alla Lombardia (con Assolombarda che rimane al centro del sistema Italia, con una forte azione trainante), mentre in altre regioni non è così pronunciato”. Ma cosa ha determinato questo impoverimento? “Ci sono due elementi che concorrono a spiegare cosa sta succedendo”, spiega Colli. “Da un lato – guardando l’elenco delle maggiori imprese pubblicato da Mediobanca per il 2023 – vedo una fotografia del capitalismo italiano nei suoi elementi costitutivi, dove la situazione è andata profondamente cambiando perché abbiamo assistito a una trasformazione delle grandi imprese che si sono indebolite in termini quantitativi, si sono internazionalizzate in modo massiccio (la prevalenza del capitale straniero è molto forte) e poi in una parte rilevante l’azionista di riferimento è lo stato. Le prime 10 imprese italiane o sono di proprietà pubblica, o sono di proprietà straniera, o sono di enti locali (come A2A ed Hera). Poi c’è qualche residuo di vecchio capitalismo ma non esiste più un vero ‘grande’ capitalismo italiano. Questo priva una componente importante, quella del grande capitale radicato nella storia industriale del paese. Lasciando fuori le prime 40 imprese italiane si scende a un livello dimensionale in cui cambiano le caratteristiche di questo capitalismo e si scende sotto i 5 miliardi di euro di fatturato. Si arriva così ad imprese con poche migliaia di dipendenti e un fatturato da 1 miliardo: un capitalismo di taglia media, con una certa presenza straniera. Le imprese italiane più robuste, come Brembo o Danieli, guardano a un orizzonte globale e sono attive sul quadrante internazionale. Queste due cose: la grande impresa che si è andata indebolendo e un capitalismo dinamico ma globale, incidono sul sistema della rappresentanza”. Quali effetti hanno avuto sull’impresa italiana questi cambiamenti? Il grosso dell’impresa italiana “si è andato imperniando su una fascia intermedia da 1 a 5 miliardi di euro di fatturato che ha come orizzonte i mercati internazionali, con uno scarso interesse per le politiche industriali italiane. Mentre il ministro Giancarlo Giorgetti fa di tutto per mettere a posto i conti, il governo (ma non solo quello in carica) non fa molto per costruire una politica industriale significativa”, conclude il professor Colli. E il sistema industriale non ha la forza per imporsi. In attesa che i nuovi “capitani coraggiosi”, non resta che coltivare qualche guardiamarina di talento.