Verifica 13 Autoritratto con Nini. A Melina e Valentina, 1972. © Eredi Ugo Mulas. Tutti i diritti riservati. Courtesy Archivio Ugo Mulas, Milano 

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Dalla provincia al Jamaica alle star, e tanta città. La gran mostra su Ugo Mulas

Giulio Silvano

"Ugo Mulas. L’operazione fotografica" è una mostra che contiene moltitudini. "Visitandola è come se si vedessero tante mostre", ci dice uno dei due curatori

Alberto Arbasino, Enzo Mari, Marcel Duchamp, Dino Buzzati, Jasper Johns, Maria Callas, John Cage, Eugenio Montale, Giuseppe Ungaretti. Sono solo alcuni dei grandi artisti e personaggi fotografati da Ugo Mulas nel corso della sua carriera e che adesso possiamo vedere incorniciati alla nuova mostra di Palazzo Reale. Ognuno può trovare il suo santino del secolo scorso. Una mostra che, dice uno dei due curatori al Foglio, contiene moltitudini. “Visitandola è come se si vedessero tante mostre, ci troviamo davanti un insieme di opere che affrontano temi differenti e sempre con una originalità di pensiero unica”, spiega Alberto Salvadori, che è anche direttore dell’archivio Mulas.  “Le immagini che si vedono a Milano hanno un filo conduttore comune, presentare Ugo Mulas come un fotografo totale, un fotografo che in pochi anni di carriera, circa venti, è riuscito a usare la macchina fotografica come una vera estensione ed espressione del suo pensiero”.

 
Ma oltre alle persone, oltre al focus sulle figure crème della crème della creatività novecentesca, la grande protagonista, è senza dubbio Milano, la città dove tutto è iniziato per il provinciale di Pozzolengo finito a fotografare Alighiero Boetti su Vogue. Racconta al Foglio Denis Curti, l’altro curatore di “Ugo Mulas. L’operazione fotografica”: “La leggenda narra di un incontro ai giardini di Porta Venezia tra Mulas e Mario Dondero. Erano tutti e due abbattuti e incavolati. A Dondero avevano appena rifiutato un servizio, mentre Mulas si lamentava del suo lavoro come autore di didascalie in un’agenzia fotografica. Fanno amicizia seduti su una panchina e Mulas rimane affascinato da Mario, e lui, generosissimo, gli presta la macchina fotografica e gli dice ‘perché non provi anche tu a fare le foto invece che scrivere le didascalie?’. E gli spiega due cose, se c’è il sole devi usare un 125esimo con 11 di diaframma, se c’è l’ombra invece… E poi Mario lo invita al Jamaica”. Al Jamaica, il bar leggendario di una Milano che non esiste più – ora lì, nel cuore di Brera, ci sono i tovagliolini sponsorizzati Aspesi – inizia la vita artistica di Mulas. 

 
Nella mostra ci sono varie foto, bellissime, del Jamaica degli anni ’50, con Piero Manzoni e Luciano Bianciardi e tutta la scena di allora, tra sigarette e sedie appoggiate sulla ghiaia e un’elegante pigrizia scanzonata che non esiste più. “Il cenacolo milanese dove Mulas si forma, da autodidatta iscritto a giurisprudenza”, dice Curti. “Dondero mi raccontava che lì al Jamaica ognuno contribuiva a un processo di conoscenza con la propria arte, gli artisti crescevano insieme. Si scambiavano libri e riviste”. Forse è Lucio Fontana il primo che lo avvicina al diventare il ritrattista dei geniacci, e le foto che vediamo in mostra con la mano di Fontana pronto a tagliare la tela col rasoio danno l’illusione del movimento. Dopo aver conosciuto gli artisti, Mulas andrà a tutte le edizioni della Biennale fino alla morte nel ’73, passando per i grandi della pop art americana, diventando il cantore visuale di alcune delle più interessanti stagioni di fermento artistico. Ma allo stesso tempo era attento al mondo reale, alla Milano del Dopoguerra in ricostruzione coperta dalla neve, agli ultimi carrettieri nella nebbia e ai proletari che si accendono il fuoco in strada nei bidoni per tenersi al caldo, o le file di letti dei dormitori pubblici. “Uno dei suoi progetti”, ci dice Salvadori, “rimasto aperto, e chissà se mai lo avrebbe chiuso, è quello di un Archivio per Milano, ossia un insieme di immagini, che lui voleva mettere a disposizione di tutti, per fare vedere, conoscere, condividere, la sua lettura e la sua idea della città e dare anche spazio a chi nessuno vede o di chi nessuno parla”.
Una parte delle foto andrà ad arricchire la collezione del museo del Novecento. Ma perché con questa reinassance della fotografia non esiste un Jeu de Paume milanese? “Ci auguriamo che possa nascere, è il grande vuoto di Milano”, dice Curti. “Manca un luogo dedicato alla fotografia, uno spazio che potrebbe essere una grande accademia delle immagini”.
 

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