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Gran Milano

La Milano non più “inspiring” tra ripicche di architetti ed errori

Francesca Amé

"La città sta vivendo tempi interessanti, al netto di tante, troppe battute d’arresto e qualche miopia". Parla lo storico dell’architettura Fulvio Irace

Per tornare a essere “inspiring” bisogna che Milano si levi di dosso quel malmostoso atteggiamento di ripicche e consorterie per cui il mio cantiere è migliore del tuo (è successo, sotto forma di lettera aperta con 190 arch-firmatari, contro Cino Zucchi, “colpevole” di investitura, diretta ma legale, per l’imminente riqualificazione del Museo Diocesano) e anche una certa tendenza al giudizio sprezzante (come la docente del Politecnico che ha bollato Cascina Merlata “quartiere della solitudine” sollevando le ire dei felici residenti) perché poi, in questo al lupo al lupo del disastro architettonico, si rischia di prendere qualche abbaglio. Certamente, gli inciampi, anche recenti, non sono mancati in città. Tra i più evidenti, l’antico Palazzo per le Assicurazioni e Riassicurazioni Savoia, ultimo degli edifici firmati da Gio Ponti (1971), “riqualificato” due anni fa dallo studio Il Prisma in una zona, tra Romolo e la Barona, in piena “gentrificazione”: “Uno scempio passato sotto silenzio” per lo storico dell’architettura Fulvio Irace, che demolisce a parole l’attuale San Vigilio Uno (anche la toponomastica, di questi tempi, è faticosa) e rimprovera la commissione edilizia del comune di Milano che ha consentito l’innalzamento di due piani e la costruzione di un ascensore esterno, alternando completamente l’aspetto originario dell’edificio.

   

Irace pubblica in questi giorni per Skira Inspiring Cities, un volume dedicato a Milano con fotografie notevoli di Gabriele Basilico degli anni Settanta, Ottanta e Novanta e scatti recenti di Iwan Baan: la pubblicazione celebra anche i cinquant’anni di storia di COIMA e la storia di Porta Nuova ma questo non accomoda troppo il suo pensiero. Non nascondendo le iniziali perplessità sul progetto, Irace ammette che ha saputo “ricucire frammenti di quartieri diversi” e, soprattutto, ha segnato l’ingresso in città di una nuova figura di imprenditore immobiliare, il developer, che necessita della finanza per procedere ai cambiamenti urbanistici. È sempre tutto male? “In una città come la nostra fatta di piccoli e medi studi di architettura, con alcune rarissime eccezioni, si è molto criticato questo nuovo approccio che affida a grosse factory straniere il profilo del cambiamento. Bisogna però essere consapevoli che certi masterplan vanno saputi gestire”, dice Irace, dichiarandosi fan di “una Milano, città di pietra” (ovvero fatta di mattoni e non di superfici specchianti) e ottimista sul futuro. “Milano sta vivendo tempi interessanti, al netto di tante, troppe battute d’arresto e qualche miopia. Osserviamo ad esempio i progetti dell’ex area Falk così come Cascina Merlata: rispetto a chi critica gli eccessi di una città che 'sale troppo in fretta' e non mi riferisco solo alle metrature in altezza ma anche ai costi al metro quadro, qui ci sono stati interessanti correttivi, con la creazione di edifici per il ceto medio”.

   

In mesi in cui i cantieri sono bloccati “per l’interpretazione libera di una norma urbanistica” e dopo che un cantiere importante come quello della Beic ha prodotto figuracce epocali come quella dell’inchiesta per una presunta turbativa d’asta (coinvolti gli architetti Angelo Lunati, Manuela Fantini, Giancarlo Floridi, Cino Zucchi e Stefano Boeri), la sfida architettonica per un futuro inspiring passa per la riqualificazione degli scali ferroviari. Davanti agli occhi c’è il “modello Prada”, con lo sviluppo dell’ex scalo Porta Romana da periferia dimenticata a quartiere “creativo”. Commenta Irace: “Le nuove architetture residenziali, sorte dopo la nascita della Fondazione, hanno gentrificato, un tempo avremmo detto imborghesito, la zona? Certamente, ma come per ogni cambiamento, c’è chi ne giova e chi no: chi era già proprietario ha visto il suo immobile rivalutarsi e così i servizi, chi era in affitto è andato in affanno. La trasformazione è necessaria, il settore pubblico dovrebbe intervenire per colmare i divari sociali: non spetta ai developer o agli architetti”.

   

Qualche domanda però si può porre: che succederà, ad esempio, dell’ex “bidoncino”, come veniva affettuosamente chiamato l’edificio di largo Treves, progetto anni Cinquanta di Arrigo Arrighetti (l’architetto del Comune, lo stesso che ha firmato la Sormani)? Al posto dell’ex palazzo di uffici comunali sorgerà un edificio residenziale di nove piani, frutto dell’acquisto di Stella RE e con progetto curato dall’architetto Matteo Giuseppe Paloschi (si parla di costi stellari al mq e “servizi” al piano terra come un centro yoga). Si dice che cambierà il volto di Brera. L’auspicio, su cui vigilare, è che le mani della finanza sull’architettura della città, inevitabili come in ogni metropoli, servano anche da leva per attivare le buone pratiche urbanistico e “effettivamente ”ispiranti”. 

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