Granmilano
Il disinteresse di Schlein riapre spiragli alla sinistra riformista
Il centrosinistra non riesce a coinvolgere il nord nelle scelte strategiche di Roma e la realtà politica milanese risulta disconnessa da quella nazionale, mentre la società civile non spicca per la sua partecipazione politica, troppo impegnata nella parte produttiva
Un tempo la Lega Nord parlava di secessione da Roma. Ma è nei fatti della politica (perché il caso a volte è spiritoso) che ormai da un pezzo Milano e la Lombardia sono del tutto irrilevanti per le scelte strategiche di Roma. Non che lo siano i territori, seppur sempre più in difficoltà, ma i decisori sì, nell’interlocuzione con il governo centrale. Non si può non notare che il centrodestra al governo ha centellinato le apparizioni sotto la Madonnina, ma anche il centrosinistra non è certo messo meglio. Le politiche della segreteria Elly Schlein non passano certo da Milano. Eppure gli esponenti ci sono, ma in gran parte sono afoni o comunque in difficoltà sul territorio, perché divisi. Per esempio, il responsabile casa Pierfrancesco Majorino ormai è in netto gelo con il sindaco Beppe Sala. Nord terra ostile ed estranea alle nomenclature dem capitoline, e non è un caso che nella città metropolitana ci sia ancora – incredibile a dirsi – l’ultima ridotta dei riformisti di sinistra. Ed è strano ma vero che non sono ancora scesi a zero i voti per Renzi e Calenda, che hanno fatto scientificamente di tutto pur di perderli. Si mixino insieme i due ingredienti (assenza di Nord nelle politiche del governo e dell’opposizione, presenza di tracce di riformismo) e si avrà un possibile percorso (o una autostrada, probabilmente, ma non vogliamo eccedere in pericolosa fantapolitica) da percorrere per Beppe Sala. Il quale – ci azzardiamo a dire – pare finalmente tornato a casa, politicamente parlando, dopo le coltellate prese dagli storici esponenti Verdi di Milano (Monguzzi su tutti) e dopo le derive radical del socialismo alla Pedro Sánchez.
Un sentiero, quello del riformismo, che non vuol dire “federazione” (lo ha detto il sindaco), parola che del resto fa scopa con “noia infinita”. E si lascino da parte anche i cattolici in conclave milanese: sono diverse e altre logiche, diverse e altre mire, diverse e altre strategie. Il riformismo non è roba di sagrestie: è una piattaforma che non può essere scissa dal profondo malessere che comincia a serpeggiare nella capitale economica d’Italia, dove l’edilizia è ferma per tutta una serie di ragioni, Procura in primis e Pd al Senato in ultimis. Dove le aziende faticano a trovare lavoratori, dove ormai il benessere diffuso e anche un po’ troppo accentuato sta portando a storture rentier (bastano due appartamenti ereditati dai nonni e l’impiego diventa optional), dove molti parlano di diritti perché ne hanno anche troppi, a scapito di interi quartieri che non ne hanno affatto, dove il senso comune vuole la sicurezza e l’élite l’integrazione, come se una escludesse l’altra. In tutto questo, il laboratorio-Milano della politica italiana è deserto. La società civile che è impegnata nella parte produttiva e non nel riscuotere dalla vendita di immobili un tempo dal valore esiguo e oggi sul mercato a peso d’oro, semplicemente non è interessata a impegnarsi in politica. E perché dovrebbe? Che cosa ne ricava?
C’è chi ci crede, ovviamente. Per esempio tra i terminali più apprezzati dalle aziende, perché ascolta, perché sa far di conto e perché capisce di politica, c’è Emmanuel Conte, l’assessore al Bilancio che potrebbe anche essere tra gli aspiranti alla candidatura a sindaco. Ma un industriale alla Dompé, tanto per far nomi, perché mai dovrebbe sacrificarsi per finire ignorato da Roma, dove il potere si è accentrato sempre di più, negli anni del centrosinistra e del centrodestra? Senza che nessuno dica niente? Così il Nord va in ordine sparso, ognuno cercando il proprio contatto per il proprio interesse, e perde coesione come bene ha evidenziato Dario Di Vico sul Corriere. Di piattaforme programmatiche che non mettano il salario minimo come primo item, ma l’aumento delle figure disponibili per le aziende con contratti tutelati e buoni, andando peraltro nel senso della vera integrazione, non se ne vedono all’orizzonte. Strano a dirsi: a Milano è difficile trovare contabili, ovviamente pagate da contratto e con tutti i crismi. Anzi, si procede sulla battaglia al Jobs Act perché dopo la sconfitta sanguinosa sull’autonomia si cerca subito la batosta successiva, in ossequio al detto che gira per gli scaloni di Palazzo Marino: c’è un Pd a cui non piace vincere. Ecco, proprio quello che Beppe Sala odia più di tutto: la vocazione a perdere. Per averne la conferma, basta chiederlo a chi giocava con lui a calcetto. Malgrado l’età, certe cose non cambiano mica.