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Il costo del mattone e gli stili di acquisto trasformano il commercio a Milano

Daniele Bonecchi

I rilevamenti di Fimaa Confcommercio sul mercato immobiliare dei negozi di Milano nel confronto sui due anni (secondo semestre 2022-2024) segnala una crescita delle quotazioni del 17 per cento. Il commercio però viaggia a due velocità

È il mattone a dettare legge a Milano, come in tutte le grandi metropoli europee. Non sono solo abitazioni e uffici, a essere coinvolti nella grande corsa ci sono anche le strutture commerciali. Gianni fa in piazza Cordusio il negozio più antico della città – la ditta Guenzati, tessuti di pregio, aperta da 249 anni – aveva dovuto cedere il passo a Generali che sta ristrutturando, con le mani esperte degli studi Freyrie Flores, Mic-Hub e Esa Engineering un edificio storico che diventerà uno scrigno prezioso per il mondo del terziario, in Galleria Vittorio Emanuele il Comune fa cassa affittando alle griffe più quotate i negozi del salotto buono della città. Uno degli ultimi acquisti si chiama Tiffany&Co, che ha vinto un’asta senza precedenti. Paga al Comune un canone annuo di 3,6 milioni di euro, corrispondenti a 20.600 euro al metro quadrato per un’area commerciale di 174,5 metri quadrati. Una cifra che supera di sette volte la base d’asta di 506 mila euro, segno che a Milano il mattone è davvero d’oro ma rende anche, se i marchi del lusso competono per ottenere gli spazi migliori. E infatti in tutto il centro i grandi marchi del lusso e non solo vanno a caccia di spazi esclusivi, anche per pochi mesi: la città è diventata una grande vetrina.

 

I rilevamenti di Fimaa Confcommercio sul mercato immobiliare dei negozi di Milano nel confronto sui due anni (secondo semestre 2022-2024) segnala una crescita delle quotazioni del 17 per cento.
Ma il commercio, come il resto della città, viaggia a due velocità.

 

“C’è una bella forbice tra i valori dei negozi – spiega al Foglio Marco Zanardi, dirigente Fimaa, responsabile dell’Ufficio studi – va dai centomila euro al metro quadro in Montenapoleone ai mille euro – cento volte meno – nelle zone periferiche. Il mercato dei negozi è diviso in tre grandi settori: la compravendita per svolgere l’attività di famiglia, poi c’è chi acquista per investire e poi chi acquista per fare un cambio di destinazione d’uso e guadagnare il doppio nella successiva vendita dell’appartamento. Quest’ultimo è un fenomeno molto diffuso – in particolare fuori dalle strade più battute – ma preoccupante perché favorisce la desertificazione commerciale. Noi, come Fimaa Confcommercio, stiamo lavorando con palazzo Marino per contrastare questo fenomeno, anche se, dopo il boom dei centri commerciali, non resistono né i negozi di vicinato né i mercati comunali”.

 

Ma chi acquista per investire? “L’acquisizione di un negozio è diventata una forma d’investimento diffusa, poi c’è poi il grande mercato dei fondi, delle assicurazioni, delle banche che però comprano palazzi interi”. Sono sempre di più i cartelli affittasi sulle vetrine delle strade commerciali, qual è il motivo? “I prezzi sono aumentati perché i proprietari cercano attività più solide, mentre la crisi si è fatta sentire, molti commercianti non reggono e la prima cosa che fanno è non pagare l’affitto, risultato: il tribunale è pieno di cause di sfratto. Così alcune strade commerciali come corso Buenos Aires hanno una quantità di negozi sfitti, perché i proprietari preferiscono attendere interlocutori affidabili”, conclude Zanardi.


   

Confcommercio ha realizzato una ricerca sugli ultimi 12 anni, tra il 2012 e il 2024, per capire quanti hanno chiuso i battenti: a livello nazionale si parla di quasi 118 mila negozi al dettaglio e 23 mila attività di commercio ambulante. Crescono le attività di alloggio e ristorazione, +18mila. Tra i settori merceologici, nei centri storici si riducono le attività tradizionali (carburanti -42,1, libri e giocattoli -36,5, mobili e ferramenta -34, abbigliamento -26) e aumentano i servizi e le attività di alloggio (+67,5 per cento) al cui interno si registra un vero e proprio boom degli affitti brevi (+170 per cento.

   

Ma non c’è solo Milano, in Lombardia sono stati presi in esame dalla ricerca: Bergamo, Brescia, Busto Arsizio, Cinisello Balsamo, Como, Cremona, Lecco, Lodi, Mantova, Monza, Pavia, Sesto San Giovanni, Sondrio, Varese. E i risultati non sono incoraggianti per il commercio di prossimità. “La desertificazione commerciale minaccia vivibilità, sicurezza e coesione sociale delle nostre città. Occorre sostenere le attività di vicinato e il nostro progetto Cities punta a riqualificare le economie urbane con il contributo di istituzioni e imprese. Afferma il presidente di Confcommercio, Carlo Sangalli. Se oltre oceano, negli Usa, i grandi centri commerciali sono entrati in crisi (ne ha scritto di recente il Foglio), nell’area metropolitana milanese sembrano godere ancora di buona salute anche perché svolgono un ruolo sociale: grazie alle numerose attività di servizio e del tempo libero sono veri e propri centri di aggregazione. Ma la “nuova minaccia” arriva dal web, si chiama social commerce e consiste nell’acquistare un prodotto o un servizio direttamente dalle principali piattaforme social. Oggi gli acquirenti digitali in Italia sono 34 milioni. E mentre nei grandi e piccoli spazi commerciali si combatte con gli orari, i costi di gestione, l’organizzazione del personale, con il social commerce le dinamiche di vendita non subiscono interruzioni e seguono un percorso semplice, alla portata di tutti, che permette di effettuare l’acquisto in pochi clic, senza registrazioni o login. La nuova frontiera dei consumi.

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