La linea Sesto
Perché il sistema Milano guarda con apprensione al voto metropolitano. MM, Atm, partecipate e altro
C’è una linea rossa che lega Milano a Sesto San Giovanni. Non solo politicamente (di qui le giunte di socialisti e comunisti, di là la Stalingrado d’Italia), ma anche fisicamente. E’ la linea rossa della Metropolitana. Quella che lega due destini fin dall’inaugurazione del 1964, quando il caso volle che il socialista presidente delle Metropolitane Milanesi, Ezio Vigorelli, perdesse la vita a una manciata di ore dalla prima corsa che lo avrebbe portato dal sindaco comunista di Sesto San Giovanni, il partigiano Giuseppe Carrà. E’ lo stesso filo che dovrebbe tenere unite Milano e Monza, nel prossimo futuro. La rossa arriverà fino alle porte di Monza nel 2019, e tra 10 anni dovrebbe arrivare anche la Lilla.
Non è però solo per una questione di metropolitane e vagoni, né perché l’intera conurbazione urbana è ormai unita, senza interstizi né spazi, che le elezioni a Monza e Sesto sono importanti anche per Palazzo Marino e per i milanesi. nell’esito del voto amministrativo c’è anche più di un riflesso che interessa il famoso “modello Milano” e le sue linee di sviluppo. Che poi la Brianza, a Milano, ha sempre fatto fortuna. A partire dal sindaco Beppe Sala, che fino alla maggiore età frequentava la sua Varedo, salvo poi farsi le ossa e cursus honorum sotto la Madonnina. Monza è importante anche perché il suo sindaco, Roberto Scanagatti, è – ad esempio – il presidente dell’Anci Lombardia. E dall’Anci passa il coordinamento politico di molte battaglie con il governo centrale. Monza è anche una delle due anime di Assolombarda, ormai a doppia trazione. Ma Assolombarda ha appena rinnovato i suoi vertici, pur tra molti mal di pancia, perché lo sconfitto, Dell’Orto, è figlio proprio della Brianza. Tuttavia, se per Monza il dna è sempre stato di centrodestra, e dunque una vittoria di Dario Allevi non dovrebbe produrre né marosi né ondine (purché trovi l’intesa con Sala sulle partite decisive), per Sesto San Giovanni la vicenda è diversa. Non è un caso che il Partito democratico metropolitano sia sceso in campo in modo durissimo, pratico, pervasivo. Il rischio di perdere un Comune simbolo è concreto. Secondo voci, sono poche centinaia di voti a separare Roberto Di Stefano, del centrodestra, da Monica Chittò sindaco uscente di centrosinistra. Di Stefano ha fatto il colpaccio convincendo il centrista Caponi, e il suo 24,24 per cento a fare un apparentamento. Ma la macchina partito della sinistra è in moto, e questo qualcosa vorrà pur dire. Per entrambi i candidati il nemico è l’astensionismo, che però – temono nel quartier generale di Di Stefano – storicamente penalizza più la destra della sinistra. Fatte le tare, che cosa cambierebbe se dovesse vincere Di Stefano? Per prima cosa, al di là del messaggio simbolico, ci sono gli equilibri – ad esempio – in Città Metropolitana. Di Stefano è sempre stato molto critico con la gestione Sala. Poi ci sono le partecipazioni in pancia alla città, come il gestore dell’acqua, CAP Holding, che ha appena riconfermato i propri vertici, e che in Sesto ha il primo azionista, seppur con una quota abbastanza ridotta. C’è AFOL, l’Agenzia per la Formazione e l’Orientamento Lavoro, che sta andando a unificazione dopo un lungo purgatorio fatto di pochi fondi e pochissime idee. Ci sono le sfide di prospettiva. Un esempio? Sui servizi “no core” di Atm, se mai ci sarà una gara, dovrà essere giocata in ambito metropolitano. E una Città Metropolitana omogeneamente di sinistra ha un significato diverso da una Città Metropolitana nella quale c’è una voce fortissima di centrodestra, che sul sistema trasporti la pensa diversa. Infine c’è la questione MilanoSesto, il progetto di riqualificazione più grande d’Europa. Qui non si prevedono scossoni: del resto al vertice c’è Carlo Masseroli, che fu assessore con Letizia Moratti e uomo di punta del progetto di Stefano Parisi candidato sindaco. Avrebbe probabilmente temuto solo il Movimento 5 stelle, ma il rischio è scongiurato. Almeno fino alla prossima volta.