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Un giro a Milano con la pattuglia che fa monitoraggio nei quartieri "islamici"

Cristina Giudici

Non bastano le barriere mobili, aumentare la telesorveglianza, il monitoraggio della prevenzione del terrorismo: ci vuole un controllo del territorio che presuppone un dialogo con i residenti

Un giovane egiziano si avvicina all’unità mobile della polizia locale in piazzale Ferrara, nel mezzo del quartiere Corvetto, per sapere come mai sua moglie abbia ricevuto la visita di un poliziotto in borghese che le chiedeva i documenti. “Si è spaventata perché non parla italiano”, spiega, esitante. Dall’altra parte della città, invece, un arabo più anziano sussurra una frase a un altro poliziotto locale, accanto al furgone fornito di telecamera, piazzato già dal luglio scorso in piazza Selinunte per volontà dell’assessore comunale alla Sicurezza, Carmela Rozza. Al centro del quadrilatero della vecchia San Siro, diventata una piazza occupata quasi esclusivamente dai maghrebini. Mentre alcuni milanesi, ancora immuni all’esperienza fatale di un attentato terroristico, dibattono su come rendere più estetiche e attraenti le barriere mobili dei jersey che gradualmente stanno comparendo in diversi luoghi considerati sensibili della città, le misure di sicurezza e di prevenzione vengono rafforzate. Perché non bastano le barriere mobili, aumentare la telesorveglianza, il monitoraggio della prevenzione del terrorismo: ci vuole un controllo del territorio che presuppone un dialogo con i residenti. Soprattutto nei quartieri più a rischio, dove microcriminalità e radicalismo possono intrecciarsi. “Si pensa al peggio per lavorare al meglio”, è il motto dell’assessore Rozza. Convinta che il controllo del territorio debba avvenire attraverso una maggiore conoscenza di chi ci abita. E infatti le due unità della polizia locale situate in due quartieri abitati da molti immigrati musulmani sono un primo esperimento per raggiungere questo obiettivo.

 

La sera dell’attentato a Barcellona, secondo una segnalazione fatta proprio nel quadrilatero della vecchia San Siro, i razzi sparati in aria dagli alloggi popolari occupati da inquilini abusivi sono stati più numerosi. Una manifestazione di entusiasmo per l’attentato? O si tratta di una leggenda metropolitana inventata magari da un anziano italiano a disagio perché si sente circondato da stranieri in maggioranza arabi? Impossibile saperlo perché sarebbe avvenuto di sera, dopo che l’unità mobile della polizia locale si era ritirata. Per il resto, i cittadini che si avvicinano al furgone chiedono sicurezza anche rispetto alle solite cose: uno scippo, un’occupazione abusiva, un tombino divelto di fronte alla macelleria islamica, gli ubriachi molesti e così via. “Ci vuole tempo per stabilire un dialogo con i residenti”, osserva il commissario Giuseppe Pedullà che guida la task force di 6-8 persone a San Siro. “Penso che sarà più facile quando arriveranno gli studenti di lingua araba che ci serviranno da ponte per dialogare meglio con la popolazione immigrata”, aggiunge. Si tratta di altro progetto ideato dall’assessorato alla Sicurezza che verrà realizzato fra un paio di mesi. Nel frattempo nel parco di piazza Selinunte, ad avvicinarsi sono soprattutto gli italiani. “Il parco si ripopola di arabi alla sera, dopo che andiamo via”, osserva un membro della piccola task force. Dentro il furgone, oltre alla telecamera, due sedie: una per ospitare chi fa una segnalazione e una per il poliziotto che appunta il problema e talvolta il nome e cognome di chi si presenta, a meno che non voglia restare anonimo. “Ora le lamentele riguardano soprattutto zingari e rumeni”, spiega al Foglio un altro ghisa, come chiamano ancora i milanesi i poliziotti locali.

 

Il consigliere comunale di Milano popolare, Matteo Forte, ha dichiarato che le misure adottate non bastano se i poliziotti locali restano disarmati. “Ci vorrebbe anche un software per avere un database e incrociare più dati”, ha aggiunto. Nel frattempo questo si sperimenta, e si piazzano i jersey nelle zone più affollate e considerate “sensibili”. A San Siro ci sono anche poliziotti in borghese della Digos, che agiscono sulla base delle loro informazioni perché negli alloggi popolari, quelli che hanno già ospitato due noti terroristi negli anni 90, è difficile osservare gli spostamenti. Il giorno dopo la strage sulle Ramblas, nessuno si è avvicinato ai furgoni della polizia locale. E al Corvetto, appena i maghrebini dediti più che altro allo spaccio di droga avvistavano il furgone con la telecamera scappavano, ci hanno raccontato. I jersey dunque non bastano. Si deve, come ribadisce ogni quando e ogni dove l’assessore Rozza, tessere una tela con i residenti. E se, come è pure successo, qualcuno ha segnalato uno scantinato dove si sarebbero riuniti alcuni musulmani e poi la polizia non ha trovato alcuno scantinato, pazienza. Conoscere e riconoscere i sintomi del radicalismo in un territorio a rischio è un mestiere complesso che richiede molta pazienza.

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