La Lombardia ha bisogno di un referendum moderno ed europeo

Stefano Bruno Galli

L’Ue pensa da anni alle aggregazioni geo-economiche territoriali. Un percorso per far funzionare la Costituzione

Parole in libertà, l’articolo di Daniela Mainini sul referendum per l’autonomia della Lombardia apparso su questa pagina una settimana fa. A essere fuori dalla storia non è Roberto Maroni, ma l’approccio interpretativo sfilacciato e approssimativo adottato da Mainini. Non ha senso tirare in ballo Francis Fukuyama e la fine della storia, teoria che dev’essere inserita nel vasto dibattito declinista sulla fine del ciclo storico della modernità politica in occidente e la conseguente eclissi della più grande invenzione della modernità, cioè la statualità, sostituita dalle istituzioni sovranazionali. Ma quando queste si configurano come un super-Stato e ne replicano su più larga scala le aporie organizzative e funzionali, trasformandosi in realtà burocratiche e tecnocratiche, il fallimento è sicuro. Per ciò questa Unione europea è un sogno distrutto. Non è in quella circostanza dei primi anni Novanta che nacque l’idea di Europa dei popoli. Sin dall’immediato secondo Dopoguerra vi fu una polifonia di voci favorevoli alla costruzione di un’Europa dal basso, dalle comunità e dai territori, archiviando gli Stati nazionali. Basta leggere qualche pagina di Denis de Rougemont. Tanto è vero che, per rigenerarsi, l’Unione europea sta ragionando da almeno un decennio sulle aggregazioni geo-economiche territoriali. Sono le strategie macroregionali. E la Lombardia di Maroni è elemento trainante della strategia macroregionale alpina – altrimenti nota come Eusalp – costruita sulle peculiarità della catena montuosa, una cerniera che unisce le comunità, per individuare politiche pubbliche coordinate e organiche fra 46 regioni, appartenenti a 7 stati.

 

Anche – ma non solo – per la partita di Eusalp, la Lombardia ha bisogno di maggiore autonomia. E se la merita, come segnalano tutti gli indicatori, per effetto della sua virtuosità e del suo rendimento istituzionale. Come può competere, infatti, con regioni che – si pensi ai cantoni svizzeri o alle regioni austriache – hanno dei margini di maggiore autonomia in relazione ai rispettivi stati? La Costituzione repubblicana offre l’opportunità alle regioni a statuto ordinario in pareggio di bilancio di aprire una trattativa e negoziare con il governo una più ampia autonomia. Nel 2001, l’istituto del regionalismo differenziato – ispirato al federo-regionalismo spagnolo – è stato costituzionalizzato per assegnare a ogni regione a statuto ordinario un’autonomia coerente con la propria capacità economica, produttiva, fiscale. In una parola, con la sua virtuosità.

 

Dal 1970 in qua, le regioni a statuto ordinario – virtuose o no – sono state trattate allo stesso modo dallo stato centrale. Il regionalismo ordinario dell’uniformità ha prodotto una realtà tutt’altro che omogenea. Lo certifica la graduatoria del residuo fiscale, che esplicita un sistema di redistribuzione territoriale delle risorse inefficace e iniquo. La sottrazione di risorse ai territori più avanzati, che le utilizzano con criteri di alta redditività ed elevata produttività, per destinarle a quelli meno virtuosi, significa incidere sull’andamento dell’economia nazionale, riducendone il potenziale di crescita. Là dove funziona, il regionalismo si configura come una leva per lo sviluppo del paese e della democrazia.

 

In sedici anni, tuttavia, nessuna regione – la Toscana ci ha provato nel 2003, il Piemonte nel 2006 e 2008, la Lombardia e il Veneto nel 2007 – è mai riuscita a rendere operativo il regionalismo differenziato. Il referendum consultivo collocato a monte della trattativa con il governo è stato concepito allo scopo di far funzionare la Costituzione, di arrivare in fondo al percorso, legittimando politicamente il peso negoziale della regione, ricorrendo al consenso dei cittadini. E’ un atto di responsabilità istituzionale e di lealtà costituzionale. Non è inutile, come sostengono i detrattori. E’ necessario. Ai cittadini si chiede il mandato a trattare. Nel quesito non sono indicate le materie oggetto della trattativa perché sono iscritte nella Costituzione: si tratta di 4 competenze esclusive dello stato e tutte le competenze concorrenti, per complessive 26 materie. Non ha senso limitare la negoziazione delle competenze, come vorrebbe qualcuno. Un residuo fiscale di 56 miliardi di euro certifica un rapporto vessatorio fra lo Stato centrale e la regione, che non ha pari in Europa e nel mondo. Per ciò la Lombardia deve trattare tutte le materie. E conquistare l’autonomia che si merita.

 

Stefano Bruno Galli è professore di Storia delle dottrine e delle istituzioni politiche alla Statale di Milano e capogruppo lista civica “Maroni Presidente - Lombardia in testa”

 

(Secondo intervento sul referendum sull’autonomia regionale del 22 ottobre prossimo)

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