Una scena della fiction su Gianni Versace

Spoiler Versace

Fabiana Giacomotti

Abbiamo visto la brutta serie Fox su Gianni. Milano modaiola silente. La storia che invece era da raccontare

In Italia, la prima puntata della fiction sulla morte di Gianni Versace, produzione di Fox Crime, andrà in onda il 19 gennaio, due giorni dopo la messa in onda negli Stati Uniti. A Milano, fra le modelle e gli imprenditori che hanno conosciuto lo stilista, nessuno ha voluto parlare con la rete, al punto che la produzione a supporto del lancio si è rivolta ad attrici e cantanti di lungo corso come Ornella Vanoni che, fra le prime, indossò le maglie metalliche dello stilista quando ancora erano prodotte in Germania presso un fabbricante di cotte e sotto le luci del palcoscenico diventavano roventi. La consegna del silenzio, a Milano davvero tombale, è stata suggerita dall’atteggiamento ostile della famiglia Versace nei confronti della Fox (“la famiglia non ha autorizzato né è coinvolta in alcun modo con la serie tv… pertanto la serie dovrebbe essere considerata come un puro lavoro di finzione”), ma anche da una certa diffidenza che il mondo della moda continua a nutrire per il piccolo schermo, fosse pure ad alto budget e blasonato come questo. Eppure, buona parte della spasmodica attenzione che va creandosi attorno al debutto della serie, e che il Foglio ha avuto modo di vedere in anteprima, più che dal battage pubblicitario e dalle intense attività sui social dell’ufficio stampa, è dovuta alla straordinaria sfilata che la stessa Donatella Versace ha allestito lo scorso settembre in onore dei vent’anni della scomparsa del fratello.

  

Non fosse stato per la collezione celebrativa, e per quello strepitoso finale con Cindy Crawford, Carla Bruni, Naomi Campbell, Claudia Schiffer e Helena Christensen schierate e inguainate nella maglia metallica d’ordinanza, gli influencer della moda di oggi, che il giorno dell’assassinio di Gianni Versace, il 15 luglio del 1997, gattonavano sul pavimento di casa, probabilmente non avrebbero mai voluto approfondire la sua storia, essendo in genere refrattari a un contatto con la moda che vada oltre il gridolino d’entusiasmo per ogni capo accompagnato da un bell’evento dove farsi selfie. A Pitti Uomo 93, in programma in questi giorni a Firenze, tutti questi ventenni non parlano d’altro che del prossimo venerdì in cui “non hanno preso impegni”. Eppure, il serial di Ryan Murphy è quello che ci si aspetterebbe da una produzione televisiva su una storia di sangue, sesso e soldi in un paese ossessionato dal perbenismo e in epoca Trump. Prevedibile, a tratti noioso (davvero ci interessa vedere che razza di schizofrenico trasformista fosse Andrew Cunanan per quindici sui trenta minuti di ogni puntata o preferiremmo capire di più del genio di Gianni?) e a dispetto di questo macchiettistico: Ricky Martin è bolso come Antonio D’Amico non è mai stato, Penelope Cruz è una Donatella Versace credibile, benché un po’ sopra le righe e un po’ meno affettuosa e generosa di quanto sia in realtà. Edgar Ramirez non è Gianni Versace, perché manca della sua solarità e della sua energia: drappeggia un abito sul corpo di una cantante come le avvolgesse al collo lo scontrino del supermercato. Su tutto, aleggia un sentore di pasta alla chitarra e mandolini che ancora si accompagna a una lettura american only dell’Italia e della sua cultura, oltre naturalmente al convitato di pietra, l’Aids. 

  

L’acronimo della sindrome che (purtroppo) non spaventa più i giovani e che forse questa fiction avrà il merito di riportare all’attenzione del mondo, è una costante ed è costantemente suggerito, nonostante le infinite e reiterate smentite della famiglia (e all’epoca dello stesso interessato), sulla malattia dello stilista. La fiction suggerisce, però, una domanda sulla quale nessuno si è mai abbastanza interrogato: che cosa sarebbe successo alla House of Versace se Gianni avesse concluso il percorso per la quotazione con Morgan Stanley, già avviato prima dei colpi di pistola di Cunanan pronto da firmare? Il processo, bruscamente e inevitabilmente interrotto dopo la sua morte, è stato ripreso in mano più volte, l’ultima nel 2014, quando il private equity Bridgepoint investì nell’azienda 210 milioni, di cui 150 in aumento di capitale, con l’obiettivo di quotarla per il 2017. Poi ci fu un nuovo cambio nella gestione, con il passaggio dal risanatore Gian Giacomo Ferraris a Jonathan Akeroyd. Ora, in ambienti finanziari, si parla di un posticipo del progetto al 2020. Ma la speculazione su quello che sarebbe successo a una Gianni Versace già quotata nel 1997 sarebbe materia narrativa ben più interessante rispetto a questa storiaccia pop dove tutti parlano come a Broccolino.

Di più su questi argomenti: