La Popolare di Sondrio e quell'idea di una holding “intermedia” dopo la riforma
I pareri degli esperti sulla “biodiversità” delle popolari da preservare a tutti i costi
Assodata la costituzionalità della legge con l’inappellabile giudizio della Consulta, la questione delle banche popolari sembra tutt’altro che risolta, almeno per la parte che riguarda le modalità operative della trasformazione in spa. Ed è una banca lombarda come la Popolare di Sondrio – 175 mila soci, bilanci in ordine e il vanto di essere un punto di riferimento per un territorio che va ben oltre la Valtellina – a scrutare gli spazi ancora consentiti dalla legge per tentare di salvare in calcio d’angolo il modello cooperativistico. In che modo? Attraverso un’architettura societaria che collochi una holding intermedia tra la base popolare e la società per azioni. Prospettiva che, va detto subito, non piace affatto agli investitori istituzionali che sono entrati nella Sondrio confidando, invece, in una trasformazione secca e nell’abolizione del voto capitario.
Dopo la decisione della Corte costituzionale dei giorni scorsi, la Pop Sondrio non ha convocato l’assemblea per deliberare la trasformazione in spa ma si è impegnata al pieno e tempestivo rispetto degli obblighi di legge “non appena il quadro normativo sarà pienamente chiarito”. Parole che sono state interpretate come la volontà di prendere tempo nella speranza che il Consiglio di Stato, che dovrà pronunciarsi entro maggio in merito ad alcuni ricorsi, apra un nuovo fronte sull’applicabilità della legge. Tale apertura non è da escludersi secondo il giurista milanese Fausto Capelli, che in questi anni ha rappresentato in giudizio le ragioni di un gruppo di soci dissenzienti di banche popolari che si sono coagulati intorno all’economista Marco Vitale, ottenendo proprio dall’organo di giustizia amministrativa la sospensione in via cautelare dell’iter di trasformazione per Pop Sondrio e Pop Bari. “La Corte costituzionale ha riconosciuto unicamente l’obbligo della trasformazione in società per azioni, ma non ha preso affatto in considerazione le modalità da seguire”, precisa Capelli. Seguendo questo ragionamento, l’utilizzo di una holding intermedia sarebbe, dunque, una strada percorribile nel pieno rispetto del nostro ordinamento giuridico, anche se spetterebbe alla singola banca valutarne la convenienza.
Se la popolare barese non sembra appassionarsi al dibattito, avendo ormai optato per la trasformazione, la questione è molto sentita a Sondrio, dove è sempre più caldo il fronte che contrappone il board presieduto da Francesco Venosta ai fondi Amber e Oceanwood, nel frattempo diventati azionisti con il 5% a testa. “Non entro nel merito di questioni che riguardano singole banche, ma il principio che viene difeso è sacrosanto. Non si capisce perché all’estero ci siano diversi casi di gruppi bancari, anche rilevanti, controllati da cooperative, come Credit Agricole e la canadese Banque des Jardins, e in Italia questo debba essere impedito”, commenta Corrado Sforza Fogliani, presidente di Assopopolari, secondo il quale con questa riforma “è stato consegnato un altro pezzo del sistema bancario nazionale nelle mani dei fondi esteri”. Sforza Fogliani analizza il fenomeno degli assetti proprietari del credito in Italia nel suo recente libro “Siamo molto popolari”, giungendo alla conclusione che esiste un gruppo di investitori stranieri i cui nomi sono talmente ricorrenti da far pensare addirittura a una strategia di accerchiamento.
L’argomento della “biodiversità” delle popolari da preservare a tutti i costi è quello più avversato da chi come Franco Debenedetti, presidente della Fondazione Istituto Bruno Leoni, ritiene che sia proprio il modello cooperativo (una testa un voto) a dare luogo a opacità e disfunzionalità gestionali. Tesi sostenuta con forza nel libro scritto a quattro mani con Gianfranco Fabi all’indomani del varo della riforma e nel periodo in cui il mondo delle popolari veniva travolto dagli scandali. E ora che sono passati tre anni, che cosa pensa Debenedetti? “Penso che chiunque operi nel nostro paese con una licenza bancaria, se va oltre una certa dimensione, debba farlo con la veste giuridica di società per azioni perché questo diventa una garanzia per i risparmiatori”. Garanzia in che senso? “In caso di crisi bancarie, la spa consente di procedere velocemente a fusioni e aggregazioni. Lo scossone di un istituto rischia di ripercuotersi su tutto il sistema e questo non è sostenibile. E poi, se una banca del territorio ha davvero una maggiore conoscenza del luogo in cui opera, avrà performance migliori sia col voto capitario che come società per azioni”. Le posizioni sono, dunque, distanti e non sarà facile per il Consiglio di Stato esprimere un giudizio che non rimetta in discussione l’impianto della normativa e non getti scompiglio tra chi la trasformazione l’ha già affrontata. Che cosa succederà? “Quello che è possibile prevedere”, spiega Angelo De Mattia, opinionista e veterano della Banca d’Italia, dove ha collaborato con il governatore Antonio Fazio, “è che il Consiglio di Stato si regoli anche sulla base delle motivazioni della Corte costituzionale. Non sarebbe la prima volta che la Consulta si pronuncia per la legittimità di una legge ma nelle motivazioni dimostra di aver tenuto in ampia considerazione le ragioni dei suoi oppositori. Comunque vada, i margini sono a questo punto molto ristretti per le popolari. E pensare è che negli ultimi dieci anni hanno avuto tutto il tempo per riflettere su come modificare il proprio modello preservandone i lati positivi”.