Viaggi sulla luna immateriale dell'abitare, Driade e gli altri
Con l’edizione 2018 della Design Week Milano ha portato il capitalismo globale sulla luna
Con l’edizione 2018 della Design Week si può pacificamente scrivere sui muri immateriali della storia presente che Milano ha portato il capitalismo globale sulla luna, una luna soffice e progettata sulla quale albergano i sogni di crescita senza fine dei veri eroi di questa kermesse globale del possibile, del probabile, del meraviglioso, del bizzarro e anche del superficiale: non i designer, ma i brand, che ormai qui assurgono a nuovi stadi di qualità ontologica. Per questo Nike, Apple, Samsung, Cos, Marni, Audi, Lexus e quest’anno anche Google e persino Juventus sono presenti con progetti spesso altrettanto interessanti dei classici miti del “saper fare” italiano: la splendida Cassina diretta dalla regina Patricia Urquiola (sua l’idea di riportare alla luce che merita il magnifico “scalone” del negozio milanese), l’algida inarrivabile Flos che omaggia Castiglioni e propone uno dei più bravi artisti funzionali di oggi, Michael Anastiassedis, e la musa inquietante dell’arredamento di ricerca, Driade, fondata nel fatidico 1968 e perciò fresca cinquantenne appena rilanciata da azionisti entusiasti come Giorgio Rossi-Cairo e Giovanni Perissinotto e dal nuovo amministratore Giuseppe Di Nuccio. Il progetto Driade del 2018 porta tra le stelle i suoi pezzi-icona, grazie alla ricerca asteroidea di Nucleo, collettivo di artisti capitanato dal geniale Piergiorgio Robino.
Proprio alla festa di Driade Moon Mission, al cinema Teatro Arti, lunedì sera, si poteva toccare con certezza la varietà della platea che viene alla mecca lombarda del saper vivere, del veder vivere, del saper vedere. Lì, nel buio del lato oscuro della luna, per un’ora e mezza almeno si sono accalcate le persone che fanno di questa settimana il paradiso dantesco del capitalismo migliore: Maria Grazia Mazzocchi, della famiglia che pubblica Domus, incantata dalle brutali sabbie in 3D che omaggiano Enzo Mari e altri eroi dell’epopea Driade. Poi Philippe Starck, la figura del progettista-brand al quadrato, felice di vedere le cover “per gravità zero” di suoi pezzi storici. Ma anche Sir David Adjaye, il baronetto dell’architettura britannica, uno dei nomi che resteranno dei primi trent’anni del XXI secolo. E Joseph Grima, direttore creativo della migliore scuola di design d’Europa, Eindhoven, che ha proposto un “basic income Cafe” in dolce consonanza con lo spirito del tempo. A Grima e il suo gruppo di lavoro, Space Caviar, si devono due delle cose più belle che si possono visitare in questi giorni: la mostra degli arredi di Lina Bo Bardi, da Nilufar, e lo spazio Alcova, pensato insieme alla vera fata del nuovo paesaggio sociale creativo meneghino, Valentina Ciuffi, titolare di Studio Vedet.
Rossana Orlandi, invece, dama di un’altra generazione ospita nel suo straordinario giardino una delle operazioni più significative e problematiche del FuoriSalone: Softwear (gioco di parole incantevole, per una volta), promosso da Google, un piccolo tentativo di immaginare la casa come un codice sorgente abitabile.
Un frammento torinese al Salone si può invece soppesare in quella che è la più riuscita fra le incursioni di quest’anno, U Joints, sostenuta dal club bianconero ma pensata in modo raffinatissimo da quello che considero il miglior architetto della nostra generazione italiana, Andrea Caputo: giunture edilizie, nodi, strette materiali che tengono insieme tutto ciò che ci circonda, in una potente sequela di variazioni che ricordano da vicino lo stupore infantile applicato al cosmo costruito. Il cosmo costruito sempre più tecnologico e immaginifico poteva trovare una perfetta incarnazione in una scena della festa lunare, fra un taglio di Kraftwerk e una “Life on Mars”: il visionario Adriano Marconetto che spiegava il suo Yar, uno dei sistemi hi-fi più esclusivi del mondo, all’eroe nascosto del nostro mondo d’impresa, Lauro Buoro, terzo investitore di Driade, veneto, fondatore di Nice Spa, regina della domotica italiana, che in pochi anni ha creato una multinazionale ad alto valore sociale (chiedere ai dipendenti e agli abitanti di Oderzo, dove si lavora e si produce) facendo cancelli automatici e luci intelligenti con un occhio alla lezione dei maestri milanesi che negli anni 50 hanno inventato il mito in cui tutti stiamo camminando concentrati tra Brera e via Tortona. A Palazzo Isimbardi, brillano le sculture specchianti di Philip K Smith e nella corte interna verdeggiante si possono ammirare decine di cittadini di altri mondi sdraiati sull’erba, adagiati su comodi puff a forma di fagiolo. Come tutte le distopie inevitabili, il capitalismo contemporaneo offre il suo lato dolce e inventivo di fucina abitabile. Da un pezzo, a Milano, Aprile e il meno crudele dei mesi.