Dove vanno la sera gli startupper di Milano a bersi una birra d'affari?
Visita (con guide affidabili) ai luoghi di ritrovo e (quasi) relax dei creativi che non staccano mai
"Ma dove andate a divertirvi?". La reazione alla domanda, per chi “gravita” nel mondo milanese degli startupper, è sempre stupita, per non dire scioccata. Poi capisci che se devono perdere tempo a divertirsi, allora dove finisce la promessa che hanno fatto al loro business angel, quello cui hanno risposto “Sì” – proprio come in un matrimonio, ma in modo più convinto che a un matrimonio – quando ha chiesto loro: “Sei disposto a lavorare per tre o quattro anni di fila, per dodici o più ore al giorno, sette giorni su sette, senza mai prenderti una vacanza?”. Per inciso: la domanda in questione l’ha coniata Andrea Dusi, uno che è partito tra vizi e coccole delle multinazionali, ha fallito una start up nel 2004, ha creato Wish Days nel 2006 e nel 2016 l’ha venduta a Smartbox, insieme alla sua co-founder Cristina Pozzi, per poco più di venti milioni di euro.
Quindi, dove si ritrovano gli startupper a Milano, come fanno ricreazione, come fanno aggregazione, dove bevono la birretta o il caffè, dove cercano il co-founder, ma qualche volta pure il partner, è presto detto: sul luogo di lavoro, che non mollano mai. Sicché in questi luoghi ci deve stare tutto: il bar, il ristorante, la palestra, magari pure il palco da concerto e da teatro, più di una sala dove secondo un calendario creativo si organizzano eventi, presentazioni e workshop, ma anche la doccia se fai tardi la sera o arrivi all’alba dall’aeroporto o dalla stazione, i divani, una rivistina (poche poche), tanto colore, tante scritte dappertutto, tessuti e pareti amichevoli come quelle della cameretta o del salotto che avresti scelto tu, caro millennial, e, soprattutto, un wi-fi che funzioni sempre, per sempre e nonostante tutto.
“Posso parlare ormai come investitore, perché la fase imprenditoriale l’ho superata: è di Milano il vero primato nelle start up, anche se Roma lo rivendica sempre” ci spiega appunto Andrea Dusi, che ha appena dato alle stampe il racconto di “Come far fallire una start up ed essere felici” (Bompiani). “E a Milano ci sono due grandi mondi nell’ambiente: chi fa start up di primo pelo e chi è più scafato. I giovanissimi cercano tre cose: supporto, idee e consiglio gratuiti, colleghi o dipendenti da assumere e soldi e hanno i co-working come polo di attrazione. Per tutto. A Milano quelli che contano sono due: Talent Garden con Tag per le start up più tradizionali o commerciali, e Impact Hub di Marco Nannini se l’impresa è d’impatto sociale”. In questi due co-working secondo Dusi si concentra tutta l’attività di meet up. Aperitivo compreso, che però non genera affari come si potrebbe pensare conoscendo la realtà americana, in cui intorno a un caffè nella Silicon Valley sono nati imperi. Strano, visto che i veri conviviali dovremmo essere noi: “Gli startupper agli inizi vanno negli hub perché hanno una scrivania a 200 euro, trovano freelancer da ingaggiare e facilitatori di investimenti”, aggiunge Dusi, che ora ha lanciato Impactscool, no profit focalizzata sulle tecnologie esponenziali. “Però a Milano non si parla mai di business al caffè: i ragazzi hanno troppa paura che qualcuno gli rubi l’idea. Gli americani invece sanno che l’idea vale zero, è l’esecuzione che conta. Facebook è copiato, ma solo Zuckerberg l’ha saputo fare”. I più scafati, quelli che a Milano la start up l’hanno già lanciata, fondano club di imprenditori under 35, lontani da Confindustria e più simili a una pizzata a casa di amici. E se sono in cerca di adrenalina tornano al co-working di partenza, un covo di stimoli in progress, aria satura di idee under pressure.
Possibile però che dal coworking non si esca e che gli startupper si trovino solo lì? I nomi che circolano in effetti sono sempre gli stessi: Copernico, casaBase e Upcycle. Il primo ospita anche uffici di aziende ben strutturate, ma ha un sotterraneo affollato di millennial pieni di belle speranze; il secondo, dieci stanze e una sala comune, vuole superare il co-working e arrivare al co-living di design, a metà tra foresteria e residenza d’artista, ed è stato pensato in pieno Tortona district proprio per startupper ambiziosi e creativi, che cercano bellezza e lusso accessibili ma ispirazionali; il terzo si qualifica come il primo bike bistrot d’Italia. Ma non cascateci: qui dentro lo startupper imbruttito pedala sì, ma su Mac, smartphone e tablet, consolato dal design da officina e qualche cocktail. E quindi siamo daccapo al co-working.
“Però appena hai bisogno di strutturarti, te ne vai”, commenta Francesco “Francio” Ferrari, 34 anni, startupper – cioè imprenditore, come preferisce essere definito – che per una volta non viene dal tech, ma dal fashion. “Milano vive bene di networking: è un bel size di città, né paesino né megalopoli, in cui le relazioni generano relazioni e dopo un po’ che ci stai conosci già un po’ tutti, coi giusti gradi di separazione. Non esiste una Soho House come a Londra, né un Tribeca come a New York, quindi se vuoi fare business e vai da Upcycle, Copernico o alla libreria Open, poi non è detto che gli altri si interessino a te. L’equivalente delle hall degli hotel delle altre megacities sono le Week, che siano Design o Food: sono un momento di exposure, anche se la maggior parte degli eventi che contano sono chiusi al pubblico”. Per uno startupper di moda non è facile: a rigor di nome i posti da frequentare dovrebbero essere il Garage Italia di Lapo, l’Armani Caffè o il Trussardi alla Scala e invece quello è tutto show off per chi vuole entrare nel mondo del lusso. I giovani imprenditori del fashion si ritrovano invece per due chiacchiere dal Fioraio Bianchi, un aperitivo al Bar Basso, una festa al Plastic, l’abbinata pizza e cocktail al Dry, la birra a Lambrate o un pranzo alla Latteria San Marco, dove “la signora ti fa sentire a casa”: lì nasce il networking imprenditoriale “divertente”, a dimensione “familiare”, che vola basso e punta al relax informale, con un’estetica del gusto che avvicina e fa tanto “Milano giusta”.
Come dire che al co-working alzi una mano e chi ti fa logo e sito o ti dà supporto legale te lo trovi a fianco, ma per le affinità elettive – magari per trovare il tuo co-founder –lo startupper deve arrischiarsi ad uscire e vivere la città. Deve averlo pensato anche Riccardo Suardi, che il 10 maggio a Milano alla Fabbrica del Vapore lancia “Smartplace”. Pare sia la prima app europea che permette di prenotare una postazione smartworking in un locale pubblico (qualcosa di simile veramente esiste già: si chiama airwork.me, come dicono gli adesivi fuori da Casa Milani o Vineria di via Stradella, che fanno parte di una rete di 15 locali milanesi dove lavorare in libertà e coperti da rete cui manca solo la app). “Selezioniamo direttamente i locali – bar, caffetterie, ristoranti – a seconda di tre parametri: prodotti gastronomici di qualità, ambienti accoglienti e ricercati e presenza del wi-fi”, ci spiega Andrea Chinetti, designer e marketing manager di “Smartplace”. “I locali ci riservano in media quattro tavoli l’uno e per ora a Milano ne abbiamo selezionati 24. Si prenotano online da uno a quattro posti per un massimo di quattro ore in una fascia oraria predefinita e ci sono anche sconti per chi consuma”. I locali scelti sembrano fatti apposta per mettere in testa progetti agli startupper: il Convivial di Porta Garibaldi, un ibrido dotato pure di stampante e sala riunioni, il Mayo in Stazione Centrale, bistrot di arrivo e partenza, o il Vapore 1928, modulabile con divani e poltrone. Il massimo del free.
Manca ancora qualcosa per far posto al tempo “libero” degli startupper della Generazione Zeta? Secondo Dusi – che i milioni li ha fatti anche grazie al suo periodo milanese – proprio niente, nemmeno un posto per condividere i flop: “Dobbiamo prendere atto che le start up nascono, ma muoiono anche”, ci racconta. “In America se non fallisci almeno una volta nessuno ti dà credito. A Milano lo scorso autunno ad Impact Hub ho sperimentato un format messicano, le Fuck Up Night: si beve un bicchiere di vino, ci si racconta che cosa è andato storto, si valuta che cosa hai imparato e che cosa hai sbagliato”. E si guarda di nascosto l’effetto che fa.