Tornare liberi con il food. Così si lavora, con le coop, nel carcere
Milano è anche la città con il sistema penitenziario più grande d’Italia. E dove le misure alternative abbassano le recidive
Si dice che Milano è grigia. Non ha solo a che fare con il cemento e la nebbia, ma anche con il fatto che qui le cose non sono sempre o solo bianche o nere. E quello che potrebbe sembrare un periodo oscuro, può mostrare un’altra faccia. Può succedere, ad esempio, di trovare una nuova vita anche dopo – anche dentro – il carcere. Quel luogo che c’è in ogni in ogni città ma dove nessuno vorrebbe mai mettere piede. Ribaltare questo concetto non è cosa da poco. Portare la città in galera: forse può suonare male, ma è quello che vuole fare Marina De Berti, coordinatrice e ideatrice della “Libera scuola di cucina” gestita dalla cooperativa sociale A&I Onlus, in convenzione con la direzione della Casa circondariale di Milano “San Vittore”. Qui gli allievi della Libera scuola, donne e ragazzi dai 18 ai 25 anni, organizzano cene e aperitivi aperti ai cittadini.
L’intero progetto è un meccanismo virtuoso di reinserimento nel lavoro. Prima degli eventi, gli allievi partecipano a un ciclo di lezioni – a insegnare ci sono anche chef stellati come Viviana Varese o Sonia Peronaci, fondatrice del blog di cucina Giallozafferano. Nata nel 2012, la Libera scuola è stata premiata nel 2015 dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella per i suoi aspetti formativi e il coinvolgimento attivo della società civile. De Berti spiega che “la scuola ha l’obiettivo di coinvolgere chi transita per un tempo anche minimo come a San Vittore, dove passa chi è in attesa di giudizio”.
L’obiettivo della Libera scuola è proporre attività formative per iniziare ad acquisire competenze spendibili nella ristorazione. Ma anche coinvolgere la città e far capire come il tempo della detenzione possa diventare un servizio a favore della società, anche in termini di maggior sicurezza: come mostrano i risultati di tre anni di studio degli economisti Giovanni Mastrobuoni e Daniele Terlizzese, scontare la pena con misure alternative riduce il numero dei recidivi.
De Berti racconta la storia di un ragazzo, appena diciottenne, “entrato a San Vittore per concorso in tentato omicidio, per aver partecipato a una rissa con un coltello”. Trasferito con circa 6 anni di pena nell’istituto di Opera, grazie alle certificazioni maturate alla Libera scuola di cucina, è stato inserito nell’istituto alberghiero del carcere. “Ora ha una pagella da primo della classe – spiega De Berti – il giudice in appello gli ha abbassato la pena e gli ha concesso i domiciliari. Proseguirà gli studi. Spesso ci si stupisce più di queste buone pratiche, piuttosto che del fatto che su 100 detenuti, 60 tornino dentro. Il tempo vuoto di senso è un paradosso del carcere che produce l’effetto contrario a ciò che dispone la Costituzione”: che la pena non sia vendetta ma recupero sociale.
La Libera scuola funziona come una sorta di osmosi, nella quale chi (per forza di cose) non può uscire riceve energie da chi viene da fuori, e con lui scambia nutrimento. Il cibo, del resto, sembra essere il sacro Graal di questa epoca. Ed è perfetto per le iniziative sociali che coinvolgono i detenuti proprio perché sinonimo di convivialità e collettività. In principio fu la Pasticceria Giotto del carcere di Padova. C’è l’Ipm Ferrante Aporti di Torino, con il laboratorio di cioccolateria legato a un grande marchio della tradizione dolciaria cittadina, e Cibo Agricolo Libero, il caseificio di Rebibbia. Ma è in Lombardia e a Milano – che, con i suoi tre penitenziari per adulti e l’istituto per minorenni Beccaria, è la città con il sistema penitenziario più esteso e articolato d’Italia – che si vede la quantità maggiore di eccellenze. Perché qui “da decenni è attivo un percorso che ha cercato di aprire il carcere al tessuto urbano”, ci dice Claudio Cazzanelli, vice direttore di A&I.
Dalla parte opposta rispetto a San Vittore, c’è il lavoro sociale che il Refettorio ambrosiano svolge col sostegno della Caritas: una mensa per i poveri ma anche un luogo di cultura, che oggi, domenica 27 maggio, accoglierà il coro dei detenuti e le “cuoche” della Libera scuola di cucina. Nel carcere di Bollate c’è InGalera, un ristorante dove chef e camerieri sono detenuti. Tra i palazzoni della periferia e il capolinea della metro di Bisceglie c’è il Beccaria con i suoi Buoni Dentro: un progetto di panificazione. Nel laboratorio all’interno del carcere di Sondrio, una vecchia autorimessa, 35 detenuti con pena definitiva al di sotto dei tre anni producono pasta gluten free con macchine professionali ultimo modello. E’ il Pastificio 1908, ideato dalla cooperativa Ippogrifo, che ha trasformato l’idea in azione imprenditoriale. Oggi rimane aperto due giorni alla settimana ed è stato appena assunto il primo detenuto. Stefano Granata, presidente del Consorzio Gino Mattarelli – la più grande rete italiana di imprese sociali di cui Ippogrifo e A&I fanno parte – spiega al Foglio che l’unica strada possibile per questo genere di progetti è proprio quella di slegarsi dai contributi pubblici e diventare impresa, cercare le nicchie di mercato che funzionano e provare a camminare sulle proprie gambe.