Dalla città del riformismo, un'opposizione con gli artigli
Diritti, istituzioni, immigrazione, realismo europeo ed economico. Intervista a Claudio Martelli
Vista da Milano, terra del riformismo e oggi baluardo di un “modello Milano” della sinistra che sta in sella e funziona, per quanto accerchiato, e capitale economica un po’ in fibrillazione, non solo a Piazza Affari, come fare opposizione al governo giallo-verde che debutta assume un sapore differente, corposo, stratificato. Come le parole di Claudio Martelli. Che, uomo della Prima Repubblica parte, con un filo di ironia, da una definizione che fu di un nemico politico, Enrico Berlinguer, al tempo in cui il Pci accetto di sostenere il governo di solidarietà nazionale: “Ogni tanto tireremo fuori l’artiglio dell’opposizione”. Fare opposizione, soprattutto per la sinistra, il Pd, “significherà quando serve anche farla con la giusta cattiveria, evitando la sindrome del dover essere più responsabili di loro”, dice l’ex ministro socialista. Ad esempio, “io avrei esordito con una mozione di sfiducia al ministro dell’Interno, uno che ripete ‘è finita la pacchia?. Ma la pacchia per qualcuno è finire ammazzato, e questo non è accettabile in una Repubblica che è (ancora) liberal democratica: Perché c‘è lo stato di diritto e il ministro avrebbe dovuto parlare e agire in ben altro modo. Invece abbiamo avuto qualche blanda protesta”. Segnare subito dei confini, insomma, in materia di diritti. “Come, se mai avranno il coraggio di proporla, l’introduzione del vincolo di mandato. Una aberrazione che riguarda le libertà individuali dei parlamentari e dei cittadini. Quello sarà un punto in cui l’artiglio dell’opposizione dovrà farsi sentire”. Poi l’Europa, la materia più sensibile. “Per ora abbiamo sentito opporre che ciò che prevede il Contratto sono tutte spese fatte in deficit. Ma non è solo materia contabile. Bisogna tenere fermo il punto che l’Europa non è una “gabbia”, come quella di Paragone, con le sbarre che si spezzano se si urla più forte. Bisogna ricordare all’Italia, e anche a questo governo, che le regole europee – comprese quelle che non funzionano – sono state approvate dai governi, compreso i nostri, e che di questa costruzione siamo corresponsabili. Ora c’è chi vuole tornare a Maastricht e chi prima ancora. E, certo, errori ne sono stati fatti. Mi ricordo che prima dell’ultimo allargamento, al presidente europeo Romano Prodi, avevamo detto, in alcuni, che prima andava riformato il modo di governare, e poi fatto l’allargamento. Fu fatto il contrario, i motivi sono noti, il risultato è che l’infornata dei paesi dell’Est ha prima causato uno spostamento dei bilanci europei che ci è costato, e poi rinfocolato in quelle giovanissime democrazie quei nazionalismi che conosciamo. Ma noi italiani ci eravamo allegramente infilati in questo. Così oggi servirebbe un po’ di mea culpa delle nostre classi dirigenti, ma serve anche la forza di dire al nuovo governo che la risposta non è rincorrere quei nazionalismi. Se no diventa un’asta dei nazionalismi”. Lo si vede bene sul tema dell’immigrazione. La Lega di Salvini ha iniziato da qui la sua marcia, e oggi il clima europeo sembra, sotto sotto, indicare che se in Italia c’è un nazionalista che vuol fermare gli immigrati, ben venga. E’ un pericolo reale? Secondo Martelli, ci sono due punti attorno cui organizzare una visione diversa. “Non rincorrere il nazionalismo. Salvini cavalca una propaganda, ma dovrebbe sapere come e in che misura può essere regolata l’immigrazione. Noi nel 1991 rimpatriammo 21 mila albanesi, in uno stato che era fatiscente. Ma fu fatto con la collaborazione, mandammo là i nostri carabinieri. Ci sono le leggi, non si può respingere, ma si può e deve fare l’accompagnamento alle frontiere. La seconda cosa è rendersi conto, sulla linea di quel che ha detto e fatto Minniti, ricordando che la sicurezza non è di destra né di sinistra, che la sinistra ha gravi responsabilità su questa situazione e bisogna cambiare. Il nazionalismo nasce quando un cittadino si accorge, o percepisce il che è uguale, che il territorio non è protetto. Cioè che lo stato non esiste. La reazione allo stato che non esiste è che i cittadini vogliono lo stato. La nazione. Dobbiamo insistere a tenere distinto il diritto della forza, come vorrebbero in molti, dalla forza del diritto”.
L’altro aspetto che desta preoccupazione e richiede un “che fare” è l’economia. Milano è capitale finanziaria, ma anche dell’economia reale. La preoccupazione nella comunità del business è concreta. “Bisogna intanto aspettare e vedere quali saranno i primi punti affrontati dal governo. Ma ad esempio è evidente che l’incertezza creata da un ipotetico ‘piano B’ è anche peggio della minaccia dell’uscita dall’euro. Vedremo. L’impressione è che se i Cinque stelle vogliono partire dal fermare le infrastrutture, le grandi opere di cui abbiamo bisogno per velocizzare il paese, anche Salvini dovrà pensare a cosa ne pensa il suo elettorato storico. Mi ricordo quando Polegato mi diceva. ‘Se ci vuole meno tempo ad andare a Timisoara che ad attraversare il Veneto, dislocheremo a Timisoara’. La comunità economica è preoccupata di questo”. Le sembra che, in generale, il mondo delle imprese sia un po’ troppo silenzioso, di fronte a queste prospettive? “Credo che un avvicinamento non spettacolare ma omeopatico alle posizioni del governo ci sarà. Il mondo dell’economia non è mai stato troppo a lungo lontano dal potere politico. E ad esempio la flat tax è un’idea che può non dispiacere. Ma bisogna vedere da dove cominceranno”.
L’anima storica riformista della sinistra, milanese ma non solo. Come dovrebbe muoversi in questo momento? “Mi sembra ad esempio sull’attacco a Mattarella si è mossa bene. L’appello promosso da Beppe Sala e firmato dai sindaci è stato un segnale. E bello: perché era difesa delle istituzioni; e dell’autonomia milanese, coscienza del proprio ruolo. Era un appello alle cose che devono unire. Da un punto di vista politico più generale, in tema di opposizione, c’è però evidentemente anche il bisogno di partire da un mea culpa. Errori ne sono stati fatti, come dice bene anche Calenda, nello storytelling di matteo Renzi. Ha fatto scommesse, anche buone, ma ha immaginato che certe dureezze della realtà potessero essere sorpassate con le parole. Il lavoro, il distacco dalla propria constituency che infatti è andata a votare dove, a parole, le sembra che sia più difesa”. E il rapporto con l’altra opposizione, quella del centrodestra non salviniano? “il lavoro parlamentare aiuterà a trovare una convivenza. Ma mi pare presto parlarne, ci sono due partiti che al momento non hanno una capacità e una forza progettuale autonoma. Ma ora devono dare una prova della loro esistenza in vita: di non essere ridotti a un mero ceto politico”.