Il presidente della Lega Serie A, Gaetano Miccichè (foto LaPresse)

Guerre del calcio

Il pallone logora chi non ce l’ha. Esiti (provvisori) di una lunga sfida economica sotto la Madonnina

Se a livello sociale il calcio è l’oppio dei popoli, in termini politico economici la Serie A è il vero banco di prova di chi vuole sfidare le leggi di gravità del Dio-pallone. La riprova? L’infinita guerra che si è consumata non solo per l’individuazione del nuovo amministratore delegato, pro-tempore, della Confindustria del pallone. Ma soprattutto il lungo scontro per decidere chi avrebbe dovuto avere la meglio sui diritti televisivi del prossimo triennio 2018-2021. Ossia, l’ossigeno di metà delle squadre del massimo campionato, che vivono, anzi resistono, grazie ai soldi garantiti dalla ripartizione degli introiti derivanti dalla valorizzazione delle immagini sul piccolo schermo. E proprio la sfida infinita andata in scena in questi primi mesi del 2018 ne è la dimostrazione. Perché fino a quando in Infront, la società svizzera gestita a lungo dal nipote dell’ex potente Sepp Blatter (oggi invece di proprietà della conglomerata cinese Dalian Wanda), le cose in Italia erano affidate alle cure di M.B., manager storicamente vicino ad Adriano Galliani, quando questi era il plenipotenziario del Milan di Silvio Berlusconi, tutto filava liscio. Le tv pagavano, i soldi (945 milioni all’anno per il periodo 2015-2018) arrivavano alla casse della Lega e poi dei vari club e se c’era una guerra a vincerla, in fondo, era sempre Claudio Lotito, patron della Lazio e grande aggiustatore delle cose pallonare italiane, nonché sponsor dell’ex presidente della Federcalcio, Carlo Tavecchio. Tutti si adeguavano di fatto: c’erano almeno una decina di squadre di A che aveva rapporti commerciali con Infront. E tutti, tv comprese, ottenevano di fatto ciò che desideravano.

 

Oggi, invece, le cose paiono andare diversamente. Al posto del manager M.B. i cinesi hanno chiamato l’ex dirigente Rai, Luigi De Siervo, già vicino a Matteo Renzi. Il piano di Infront era assai aggressivo: sfondare il muro del miliardo e, grazie alle nuove norme dettate dell’ex ministro dello Sport, Luca Lotti, ripartire in maniera più equa gli incassi dalla vendita delle immagini televisive. Un progetto “sociale” che però si scontra con la volontà dei grandi club che da sempre incassano più soldi per il maggior bacino d’utenza.

 

In questo scenario, quindi, si è combattuta la doppia sfida di potere: il consiglio nuovo della Lega e la vendita dei diritti tv. Sul primo tema caldo la sfida estenuante è stata tra la Juve degli Agnelli-Elkann, affiancati sin da subito dalla Roma americana di James Pallotta e dalla “piccole” Sassuolo e Bologna, e il fronte lotitiano composto da Sampdoria, Genoa, Udinese, Chievo, Atalanta e le altre piccole. In mezzo stavano le due milanesi, anche perché i nuovi padroni cinesi dovevano e devono di fatto ancora prendere coscienza della realtà nella quale sono calati e soprattutto capire le logiche della gestione dall’italiana del business. Solitario, invece, ha provato a giocare la sua partita Urbano Cairo. Il patron di Rcs, di La7 e del Torino forse è quello che più ne mastica di calcio in tv, pubblicità e così via. Per questo, nel vuoto di potere che si era venuto a formare, ha giocato la carta a sorpresa: indicare quale nuovo amministratore delegato un manager straniero. Dapprima ci ha provato con tal Sami Kahale, ex manager Procter&Gamble, assolutamente vergine di pallone, al punto che poi è finito in Esselunga. Poi ha provato a pescare il jolly: Javier Tebas, il numero 1 della ricca e prolifica Liga spagnola (grazie al potere di Real Madrid e Barcellona). Per Cairo, che in terra iberica ha più di un interesse (El Mundo, Marca ed Expansiòn), si sarebbe trattato di fare bingo, mettendo una forte ipoteca sul futuro gestionale della Confindustria pallonara milanese (la sede è in un anonimo palazzo di via Rosellini, quartiere Isola). Un blitz che si stava concretizzando visto che a un certo punto è spuntato dal nulla uno dei big della gestione dei diritti tv, il gruppo spagnolo, guarda caso, Mediapro (gestisce la Liga e altri 12 campionati in giro per il mondo), aveva vinto la partita con un assegno da 1,05 miliardi all’anno mai visto prima. Ma quando il copione pareva scritto, ecco la vera sorpresa.

 

Perché nessuno aveva considerato, né tantomeno tenuto in considerazione, il potere contrattuale del nuovo presidente della Lega Serie A: il banchiere, scuola Intesa Sanpaolo, oggi Banca Imi, Gaetano Miccichè. Che alla fine ha imposto la sua linea: ha bocciato l’offerta, tutta sulla carta e non sui conti correnti, di Mediapro, ha stoppato il sogno del canale della Lega che cullavano e cullano ancora oggi una decina di presidenti, ha bocciato di fatto l’arrivo del nuovo ad, un altro banchiere, tal Marzio Perrelli di Hsbc Italia, amico di Giovanni Malagò, numero 1 del Coni e commissario della Serie A e ha impedito il blitz di Lotito & Co di portare il manager ex Telecom, Seat, Wind, Gruppo L’Espresso e Pirelli, Paolo Dal Pino.

 

Ma, soprattutto, ha dimostrato a tutti i presidenti che lui conosce il mercato, le regole del gioco e che la finanza alla fine è il vero dominus: del resto Intesa Sanpaolo è riconosciuta quale banca di sistema in Italia, alla quale tutti gli imprenditori, e spesso i presidenti del pallone, si rivolgono quando necessitano di finanziamenti, prestiti, mutui, fideiussioni e così via. Miccichè, insomma, arrivato per ultimo in questo mondo, ma non da sprovveduto, con poche e abili mosse ha preso in mano la situazione e conquistato il centro del palcoscenico, di fatto restituendo lo status quo (prima dominavano Sky e Mediaset Premium. Ora vincerà ancora e forse di più la pay tv di Rupert Murdoch) e frenando le ambizioni di tanti. Perché il pallone logora chi non ce l’ha.