Fondazione Pirelli, o la memoria di essere industria
Da dieci anni un formidabile archivio aperto di scienza, tecnica ma anche advertising
Pirelli era già una multinazionale nel 1922. A cinquant’anni dalla fondazione aveva uffici commerciali in tutta Europa, fabbriche in sud America e persino un’attività di raccolta del caucciù a Giava. Una incredibile foto del 1906 mostra la moltitudine operaia fuori dallo stabilimento di via Ponte Seveso, dove mezzo secolo dopo si sarebbe iniziato a costruire il Pirellone: decine di migliaia di uomini e donne in posa, serissimi, un poco cenciosi e anche un poco scocciati si direbbe. Pirelli è l’unica grande azienda del milieu industriale italiano – con l’eccezione dell’Eni, ma con una vicenda molto più breve, e in parte di Olivetti – che si è messa in testa di conservare e trasferire memoria di sé e della sua storia d’impresa attraverso una Fondazione. Lo ha fatto esattamente dieci anni fa, il 22 luglio del 2008, mettendo insieme e organizzando per il pubblico uso un formidabile archivio con la documentazione tecnica, aziendale, sindacale, di comunicazione dei suoi 145 anni di attività; una biblioteca tecnico-scientifica di oltre 16 mila volumi; una gallery di 700 mila fotografie; una raccolta di bozzetti, tavole, disegni e grafiche originali che racconta un secolo e mezzo di pubblicità dell’azienda e insieme un pezzo di storia dell’advertising italiano.
Il mood di Fondazione Pirelli è riassunto in una frase in dialetto milanese che accoglie il visitatore all’ingresso della palazzina 134 della Bicocca: “Adess ghe capiremm on quaicoss: andemm a guardagh denter”. Ovvero “Adesso ci capiremo qualcosa; andiamo a guardarci dentro”. Il motto, attribuito all’ingegnere Luigi Emanueli che nel 1917 inventò il cavo all’olio fluido, è pura poesia della meccanica e celebrazione del progresso novecentesco. E insieme è anche fortissima rivendicazione delle radici di Pirelli, di una milanesità mai perduta a dispetto – o forse in forza – delle dimensioni internazionali di un’impresa da sempre proiettata oltre il mercato domestico. Oggi Pirelli ha una maggioranza cinese, ma dei nuovi azionisti di controllo non c’è, o quasi, traccia nell’headquarter della Bicocca. Né la Fondazione Pirelli pare imbarazzata o sottoposta a obblighi formali. “Sono più che discreti e rispettosi – dice il direttore e consigliere delegato di Fondazione, nonché senior advisor Cultura di Pirelli spa, Antonio Calabrò – lo sono per cultura ma d’altronde non c’è ragione perché non sia così: il ritorno in Borsa è stato un successo, il brand, grazie a Formula 1 ha un appeal mondiale, e l’azienda distribuisce profitti”. Calabrò è un giornalista che nei primi anni Duemila ha incrociato Marco Tronchetti Provera nell’avventura Telecom e che ha deciso – dopo il disimpegno tumultuoso dalla Tlc – di rimanergli a fianco in Pirelli. Siciliano di Patti si è fatto le ossa all’Ora di Palermo durante gli anni della guerra di mafia, poi è stato all’Economia a Repubblica, al Sole 24 Ore e infine direttore dell’agenzia ApCom. Ora è una specie di divulgatore-apostolo della cultura d’impresa e tiene i fili delle contribution di Pirelli nelle istituzioni culturali – a Milano fra gli altri il Piccolo Teatro, il Teatro Franco Parenti, l’Orchestra Verdi – e da responsabile Cultura di Confindustria e vicepresidente di Assolombarda è l’uomo chiave nei rapporti fra imprenditoria, cultura e istituzioni. Scrive libri, Calabrò – l’ultimo “La morale del tornio” – e tiene con frequenza quasi quotidiana un blog sul sito della Fondazione. “La nostra non è una fondazione d’investimento su progetti altrui – spiega – è la messa a disposizione del pubblico di un patrimonio che documenta il ruolo delle fabbriche, del lavoro, della tecnologia. Che racconta come attraverso il lavoro e l’impresa gli immigrati diventano cittadini, di come nascono i prodotti e di come cambiano i consumi e i costumi”. Tutto l’archivio Pirelli è stato, volontariamente, messo sotto la tutela della soprintendenza ai beni documentali della Lombardia. Nulla, cioè, può essere commercializzato. Nella sede riorganizzata e ridisegnata dall’architetto Pierluigi Cerri, le sale di consultazione e riunione cambiano layout ogni anno. Una parete ospita un monumentale mosaico di Renato Guttuso dedicato alla ricerca chimica. Sul muro delle scale il cartone preparatorio del mosaico, forse ancora più bello. L’attività della Fondazione, attraverso il programma educational, è rivolto soprattutto a scuole e università. Nel 2017 sono stati coinvolti oltre 3.000 studenti. La parte più spettacolare è l’archivio dell’advertising. Fra gli autori Bob Noorda, Bruno Munari (che in Pirelli è stato anche responsabile, negli anni Cinquanta, della divisione giocattoli), Alessandro Mendini e persino il fascistissimo illustratore del duce, Gino Boccasile. Fondazione Pirelli è anche responsabile delle biblioteche aziendali: a Milano sono due, una alla Bicocca con circa 4.500 volumi e l’altra nello stabilimento di Bollate. Poi le raccolte delle pubblicazioni Pirelli, in particolare la Rivista Pirelli di informazione e tecnica, uscita dal Dopoguerra fino al 1972. Un bimestrale dove le copertine erano firmate Ugo Mulas e fra i contributor c’erano Gianni Agnelli, Umberto Eco, Eugenio Montale, Vittorio Sereni, Dino Buzzati e anche giornalisti pop come Franco Mentana, firma della Gazzetta e padre di Enrico.
Fondazione Pirelli ha anche ripreso la tradizione di commissionare opere d’arte. L’anno scorso l’ha fatto con la musica e messa in scena di “Canto della Fabbrica”, una composizione del violinista Francesco Fiore eseguita con la direzione di Salvatore Accardo in anteprima al Piccolo Teatro e poi, in prima ufficiale, il 6 settembre 2017, nella stabilimento Pirelli di Settimo Torinese disegnato da Renzo Piano. “Fra i mille spettatori c’erano oltre 300 dipendenti dello stabilimento di Settimo – chiosa orgoglioso Calabrò – e non glielo aveva ordinato nessuno”.
Ivan Berni