La tempesta perfetta dell'economia gialloverde su Milano
Negozi, decreto dignità-taglia posti, investimenti incerti e silenzio sulla moda. Un po’ di numeri
La più sintetica tra le battute che il ministro del Lavoro e dello Sviluppo economico Luigi Di Maio si è tirato addosso, con la proposta di chiudere i centri commerciali la domenica, l’ha impacchettata Vittorio Sgarbi: “Una forma di oscurantismo alla mullah Omar”. A meno che, quello del vicepremier, non sia tutto un gioco, come nel caso dell’Ilva: dopo mesi di tira e molla, avvocatura e tavoli di confronto allargati, la vicenda si è risolta, un istante dopo la minaccia di sciopero dei sindacati, dando seguito all’accordo Calenda. Non ci sarebbe da stupirsi se alla fine del percorso dei “negozi chiusi la domenica”, tra deroghe ad personam, città turistiche, percentuali a rotazione, tutto rimanesse com’è. Ma su Milano e la Lombardia non c’è solo la tempesta perfetta dei negozi chiusi la domenica, ci sono altri provvedimenti, come il “decreto dignità” o la rivisitazione pentastellata dell’alternanza scuola-lavoro, che hanno gettato nel panico il mondo dell’impresa. Perché Milano e la sua regione marciano a sostegno del Pil nazionale, a patto che qualcuno non si diverta a remare contro. Come nel caso della moda che, è il caso di ricordarlo, produce utili in Italia per 66,3 miliardi e vale il 4 per cento del Pil italiano e solo a Milano ha un giro d’affari di 22 miliardi con 13 mila imprese e 102 mila addetti. Il mondo fashion ha trovato rifugio da tempo a Milano, che combatte ad armi (im)pari con Parigi e New York. Qualche giorno fa Carlo Capasa, presidente della Camera nazionale della moda, a margine della presentazione delle rassegne di settembre ha confessato, un po’ sconcertato, che “il grande assente” sarà proprio il governo, che non ha ancora dato segni di vita. “Sarebbe una follia” se mancasse l’attenzione dell’esecutivo alle settimane milanesi, ha ricordato Capasa, la Camera della moda ha invitato il premier Giuseppe Conte e il ministro per lo Sviluppo economico, Luigi Di Maio, alla serata del Green Carpet, il 23 settembre alla Scala: “Gli inviti sono partiti ma non abbiamo avuto conferme”, ha confessato melanconicamente il presidente delle imprese fashion.
Ma torniamo alla chiusura domenicale di negozi e centri commerciali. Certo la proposta Di Maio (al netto del passo del gambero) non farà impazzire di gioia realtà come CityLife, a Milano, dove hanno trovato ospitalità un mega centro commerciale, un supermercato, una multisala Anteo, servizi, negozi e palestre che, in particolare la domenica, diventano un approdo sicuro per migliaia di famiglie. Scarso entusiasmo anche all’OrioCenter di Bergamo (proprio davanti all’aeroporto) che con Percassi ha fatto la fortuna dello scalo bergamasco, aprendo al pubblico una cittadella del commercio, sabato e domenica compresi. Per non parlare degli australiani del Westfiel Milano, che a Segrate apriranno tra un anno uno spazio gigantesco (300 negozi 50 ristoranti e servizi di ogni tipo) in grado di ospitare anche i magazzini Galeries La Fayette. Ma, centri commerciali e mega poli del lusso a parte, solo a Milano città i negozi sono 12 mila, mentre sono 845 le imprese che in città vendono via internet e che non avranno limitazioni. Senza contare i colossi come Amazon, e-bay eccetera. E’ Federdistribuzione, che associa la grande distribuzione e i centri commerciali, a scendere sul sentiero di guerra lanciando un vero manifesto contro le chiusure domenicali. Sono quasi 20 milioni (dati nazionali) le persone che acquistano la domenica – spiega Federdistribuzione – 12 dei quali nei centri commerciali. Con 24,5 milioni di ore lavorate in più, sono stati pagati ogni anno oltre 400 milioni di maggiori stipendi, equivalenti a 16.000 posti di lavoro. Dove i punti vendita rimangono aperti 7 giorni, la domenica è il secondo giorno per fatturato, rappresentando quasi il 15% di quello settimanale. Più favorevole al dialogo l’organizzazione guidata da Carlo Sangalli, Confcommercio. “Ridiscutere con atteggiamento non ideologico il ruolo della distribuzione è un primo passo importante e condivisibile. L’obiettivo deve essere quello di evitare gli errori del passato e di valorizzare il nostro modello plurale fatto di piccole, medie e grandi imprese per assicurare il massimo del servizio e della qualità alle famiglie e ai consumatori. Partire, quindi, da una regolamentazione minima e sobria per le chiusure festive attraverso il dialogo con le rappresentanze è una via percorribile e imprescindibile”. Così Enrico Postacchini, delegato per le Politiche commerciali di Confcommercio, sullo stop alle aperture festive. Se i commercianti non ridono gli artigiani sono molto preoccupati per le modifiche che il governo ha varato sul fronte della formazione: un passo indietro che mette a repentaglio l’occupazione giovanile e che mina i già fragili equilibri dei rapporti tra scuola e mondo del lavoro. L’Unione artigiani di Milano e Monza-Brianza infatti critica l’accordo raggiunto nella maggioranza sull’alternanza scuola-lavoro. “L’alternanza scuola lavoro – spiega il segretario generale dell’Unione, Marco Accornero – non sarà requisito d’accesso all’esame di Stato (grazie ad un emendamento nel Milleproroghe). Ed anzi questa scelta costituirebbe, nelle intenzioni del governo, il primo passo per un restyling complessivo dei percorsi scuola-lavoro, che faticosamente sono stati avviati in questi anni dando vita a buone pratiche di confronto e rapporto fra mondo della scuola e realtà lavorative, che si mira a ridurre sensibilmente specie nei licei”. Per dare una dimensione al fenomeno basta capire che “sono oltre 31 mila in un mese i posti offerti dalle imprese per chi esce dalle superiori o dalle scuole professionali a Milano (26 mila posti), Monza Brianza (4 mila) e Lodi (750). A Milano quasi tremila posti anche per l’indirizzo professionale in ristorazione, a Monza e a Lodi. Tra chi esce dalla scuola secondaria, le imprese faticano a trovare soprattutto diplomati in informatica e telecomunicazioni a Milano (il 42,6 per cento è di difficile reperimento)”, conclude Accornero. Insomma la cura pentastellata sulla città del lavoro sembra fare molti danni. Inokltre, col “decreto dignità”, che ha provocato le ire degli industriali lombardi, rischiano di rimanere a casa almeno 400 circa i precari che lavorano per le aziende del Comune. Duecento i dipendenti con contratti a termine a rischio in Milano Ristorazione, la società che gestisce le mense scolastiche e dei centri anziani. E la Felsa Cisl Lombardia, il sindacato che tutela i lavoratori somministrati (ex interinali) e le partite Iva, lancia l’allarme: “La direzione di Milano Ristorazione, per timore dell’applicazione della causale, ha deciso di interrompere il rapporto di lavoro rinunciando alla professionalità di lavoratori con esperienza anche di diversi anni, per prendere persone nuove, da addestrare da zero – afferma il segretario generale Felsa Lombardia, Daniel Zanda – Ci siamo resi immediatamente disponibili per valutare ogni possibile soluzione contrattuale, per garantire comunque la continuità lavorativa di queste persone, ma l'azienda in modo del tutto incomprensibile non ha voluto ascoltare”. Oltretutto, secondo Felsa Lombardia, Milano Ristorazione non conosce con esattezza il decreto poiché “la riassunzione a settembre – afferma Zanda – rientrerebbe nel periodo transitorio previsto dal decreto stesso, quindi senza gli aggravi di causali o maggiorazioni”.
Ma non c’è solo Milano Ristorazione, c’è il caso di altri duecento lavoratori in Amsa, dove normalmente gli operatori ecologici vengono arruolati solo con contratti di 12 mesi rinnovabili, finché è stato in vigore il Jobs Act, fino a trentasei mesi. Ma con il ddl dignità sarà possibile solo fino a 24 mesi. In pratica saranno in molti a non potersi giovare del rinnovo contrattuale. Ma anche altre utilities (A2A) utilizzano il lavoro flessibile, e avranno gli stessi problemi. Nella città del terziario e dell’innovazione dove si fa a cazzotti (a suon di milioni di euro) per uno spazio in Galleria, dove i grandi gruppi come Apple e Starbucks occupano le migliori piazze del centro storico, i provvedimenti del governo del cambiamento non sembrano suscitare entusiasmi.