Immagini prese da Facebook

38 anni di trasgressione e non sentirli. Storia del Plastic, “il” posto

Ivan Berni

La lista esclusiva, il new wave, i divi del rock e la luce anti-cocaina. Perché Milano ha bisogno del suo locale più trendy

Quando aprì non era immaginabile qualcosa di più precario: un antro nero ricavato da un piccolo magazzino con affaccio su viale Umbria, un vecchissimo stabile di un piano, con ringhiera, destinato alla demolizione per via dei progetti di ristrutturazione della stazione di Porta Vittoria. Un buco di posto chiamato Plastic, aperto da un gruppo di ventenni reduce dalla gestione di una botteguccia off-punk in via Lupetta, dietro via Torino, con la pretesa di farne il primo locale niuiorchese di Milano. Un po’ new wave, un po’ dark e già allora molto gay oriented, ma senza sbandierare la tendenza.

 

Precario e instabile lo era assai, il Plastic, ma era anche la tana che Milano cercava e di cui aveva bisogno. E di cui continua a non poter fare a meno dopo la bellezza di 38 anni. Si può iscrivere un club-discoteca all’elenco delle case della cultura milanesi? Non solo si può ma si deve, considerando non solo la longevità da record, ma anche le tracce che ha lasciato e che continua a spargere. Del resto questo è l’unico locale da ballo milanese che sia meritato l’Ambrogino, nel 2009, per aver lustrato il nome di Milano nel mondo. Ed è anche il luogo che la buonanima di Elio Fiorucci si impegnò a difendere dallo sfratto della vecchia sede di viale Umbria perché “senza il Plastic Milano perderebbe una parte importante della propria identità”.

 

Dal buco delle meraviglie di viale Umbria il Plastic fece le valige nel 2012, per riaprire qualche mese dopo in via Gargano 15, zona Ripamonti, rilevando un locale di scambisti fallito, in mezzo a una zona industriale quasi in dismissione. La magia funziona ancora: c’è sempre coda e come tre decenni fa l’accesso è un terno al lotto. I buttadentro decidono chi può e chi non può e c’è sempre qualcuno che la prende male. Del resto questa cosa certamente antidemocratica della selezione all’ingresso non può piacere a tutti: entra chi sta “in lista” o chi conosce qualcuno di conosciuto. Il Plastic è stato il primo a importare il sistema da New York. Antipatico ma indubbiamente efficace, perché alla fine ha evitato la massificazione, lo ha reso irresistibilmente desiderabile e, soprattutto, ne ha protetto l’identità.

 

Perché la cosa straordinaria è che il Plastic è ancora oggi fatto e riprodotto dagli stessi che lo avevano aperto nel 1980: Nicola Guiducci, art director e dee-jay, e Lucio Nisi, patron, gestore e parafulmine di tutti casini dentro e fuori il locale. Guiducci, che oggi viaggia verso i sessanta, è un genio dell’art clubbing. Nell’antro nero del Plastic anni Ottanta mixava new wave elettronica e arie di Puccini prima ancora che lo facesse Malcom McLaren. Definiva il look del locale mettendo insieme vecchi lampadari di cristallo a goccia, divani damascati delabré e videofinestre nelle pareti, specchi a mosaico, luce pulsante, applique della nonna e laser. Per un paio d’anni, nel privé, piazzò persino un biliardo. Una roba del genere non si era mai vista a Milano e nemmeno a New York.

 

Infatti il Plastic si è fatto la fama perché gli americani dello show business e gli stilisti nostrani lo avevano eletto a vetrina della creatività. Per una lunga stagione sulle poltrone e i tavolini barbon-chic del Plastic si sono sedute le rockstar nei dopo concerto: da Madonna a Sting, da Springsteeen a Grace Jones ai Pink Floyd; e poi Andy Warhol e Keith Haring, che con Guiducci flirtava; e ancora Oliviero Toscani in cerca di facce e di corpi, Elio Fiorucci in cerca di ispirazione e buona parte del gotha della fashion di successo milanese, Stefano Gabbana in testa. Guiducci, ancora oggi contesissimo come “sound designer” delle sfilate dei superbig della moda, non s’è staccato dal Plastic per via del legame simbiotico con l’altro pilastro fondamentale del locale, Lucio Nisi.

 

Che va per i settanta, ed è a sua volta una figura mitica e non replicabile. Cominciò a occuparsi del Plastic pochi mesi dopo la fondazione, dato che il fratello Lino – quello della bottega punk – primigenio fondatore, gettò la spugna per problemi di salute. Lucio, pugliese di Villa Castelli – paesone agricolo fra Brindisi e Taranto noto per i carciofi – aveva un negozio di frutta e verdura in zona San Siro e per più di vent’anni riuscì a gestire entrambi: alle 4 e mezzo chiudeva il Plastic e mezz’ora dopo stava all’Ortomercato a far la spesa per il negozio. Ortolano e discotecaro ma soprattutto “capo politico” della sua impresa notturna, perennemente di ronda intorno al locale per intercettare, e respingere, “brutte facce”. E di ronda anche dentro la tana del Plastic, per evitare annidamenti pericolosi e tensioni fra piste e divanetti.

 

Sua l’idea di mettere nel corridoio d’accesso al locale una luce nera, capace di evidenziare tracce di cocaina sulle facce e sui vestiti. E di distinguerle dalla forfora. “Sono un democristiano prestato alla gestione di un bordello”, racconta di sé, giocando sul titolo di una delle serate classiche del Plastic: “House of bordello”, appunto. Le rughe sulle facce dei fondatori non hanno ancora fatto invecchiare la formula. Il pienone c’è sempre e in particolare il sabato con la serata “Club Domani”, quella con le drag queen che impazzano in pista organizzata da Sergio Tavelli, che insieme a “Pinky” Rossi, affianca da qualche anno Guiducci e Nisi nella programmazione. Al di là delle playlist originali e dei personaggi genderless più o meno coloriti che animano e frequentano le serate, il segreto che mantiene vivo il Plastic sta nella fisicità. Il contatto non è evitabile in nessun modo: si balla e si suda smodatamente. E ci si tocca, perché è impossibile che non accada. E perché, qualche volta, c’è chi vuole che succeda. Non è poco, nella cerebrale Milano.

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