Quando la Thatcher abolì Londra. Qualche idea per una Great Milano
Qual è la vera posta in gioco nella strana guerra sull’aumento del biglietto di tram e metrò fra Comune e Regione
Dopo aver fatto fuori i minatori e i portuali, e aver stravinto le elezioni generali riducendo il Labour al minimo storico, Margaret Thatcher decise che era venuto il momento di fare i conti con i riottosi e spendaccioni londinesi. In particolare con il laburista Ken Livingstone, sindaco a capo di un’amministrazione che ancora osava resistere alla Lady di ferro. Era il 1986 e d’un colpo Londra sparì come entità politica e amministrativa. Thatcher abolì il Greater London Council e con esso la figura del sindaco, designato al suo interno. Il governo centrale prese sotto di sé gran parte delle competenze del disciolto Council londinese e lasciò ai Borough – le municipalità – l’ordinaria amministrazione con relative, e centellinate, risorse economiche. Durò così fino al 2000, quando Tony Blair restituì alla capitale britannica la dignità politica e amministrativa perduta, introducendo l’elezione diretta del mayor (unica città in Uk) e l’istituzione della Greater London Authority, l’assemblea elettiva dei 25 rappresentanti cui il sindaco deve rispondere. Per quattordici anni, quindi, Londra restò senza testa ma non per questo smise di essere Londra. Al tempo si disse che, in ogni caso, il sentiment della città – e l’idea di appartenenza dei suoi abitanti – era garantito dal suo formidabile sistema dei trasporti. Dal Tube, prima di tutto, che con la sua rete integrata alle ferrovie regionali permetteva a un londinese di sentirsi profondamente tale anche a un’ora di distanza dal Tower Bridge o da Westminster.
La vecchia storia della Thatcher, del sindaco abolito e del metrò di Londra ha qualcosa da dirci oggi per aiutarci a capire qual è la vera posta in gioco nella strana guerra sull’aumento del biglietto di tram e metrò fra Comune e Regione. Misurate le debite distanze temporali, politiche e personali fra Gran Bretagna e Italia, Londra e Milano, Thatcher, Livingstone, Beppe Sala e Attilio Fontana( e Matteo Salvini sullo sfondo), c’è innanzitutto la suggestione politica: come ai tempi della ferrea Margaret, qualcuno ritiene sia venuto il momento di bastonare l’eretico guastafeste, ovvero il sindaco di Milano, cioè della grande città che funziona a dispetto del resto del paese e che non si allinea culturalmente e politicamente all’andazzo gialloverde. Sala si ribella e denuncia il pericolo di un nuovo centralismo regionale annidato dentro la rivendicata maggiore autonomia dallo stato centrale: “Che potere ha un sindaco se nemmeno può decidere l’aumento del biglietto del tram?”. Beppe fa bene a protestare, ma a ben vedere l’invasione di campo della Regione ha più che fare con l’altra parte della riforma del trasporto pubblico locale che il Comune vuole e che il Pirellone, dopo un primo okay, tende a sabotare. L’altro pezzo si chiama integrazione tariffaria e dovrebbe permettere di modulare, in modo razionale, il costo del trasporto pubblico locale nella Grande Milano, portando nella maggioranza dei casi a una diminuzione del ticket e degli abbonamenti per i pendolari e, in qualche caso, a limitati aumenti. Questa operazione – legata al prolungamento fuori città delle linee del metrò e a nuove linee di metrotranvia – di cui vanamente si parla dai tempi dell’ottimo vicesindaco e assessore ai Trasporti del Pci, Vittorio Korach (correvano gli anni Settanta) vede al centro, ovviamente, l’Atm che di fatto, in questa prospettiva, diventerebbe il soggetto centrale della politica di trasporto pubblico locale in Lombardia. Determinando in qualche modo il futuro di Trenord, di proprietà regionale e alle prese con una infinita crisi, e ridimensionando le ambizioni del Pirellone a farne il soggetto portante del trasporto pubblico in Lombardia. Detto altrimenti: con l’integrazione tariffaria, lo sviluppo verso l’esterno della rete Atm e un raccordo più efficiente con la ferrovia metropolitana di Trenord avremmo, finalmente, qualcosa di simile al “Transport for London”, l’authority che governa la mobilità della capitale inglese. Avremmo per la prima volta un sistema di mobilità integrata del trasporto pubblico che costruisce la “città metropolitana”, ovvero il passaggio che concretizza un ectoplasma istituzionale in una realtà che costruisce servizio e appartenenza.
Ad essere sinceri, non è che il Comune di Milano e lo stesso sindaco Sala, finora, si siano distinti nella sottolineatura di questa implicazione. L’integrazione tariffaria, e la strategia che la sottende, sono apparse fino a questo momento come una sorta di corredo alla decisione di aumentare a 2 euro il biglietto ordinario di Atm. Forse varrebbe la pena di correggere il tiro e di spiegare che di mezzo non c’è, solo, la necessità di avere una liquidità maggiore per l’Atm (e per il Comune azionista potenzialmente di un dividendo di qualche decina di milioni per compensare i tagli del governo) ma soprattutto l’idea di costruire la Grande Milano proprio a partire da una rete di trasporto pubblico veloce, funzionale e competitiva con il trasporto privato. Quello che ha fatto grande Londra più di un secolo fa. E che le ha permesso di sopravvivere persino alla Thatcher.