Dopo Milano, ora Starbucks vuole aprire altri dieci store in Italia
Sei mesi dopo l’apertura-evento al Cordusio, il marchio americano guarda a Roma e alle università. Parla l’amministratore delegato Roberto Masi
Hanno passeggiato per le vie del centro come vecchi amici in cerca della casa giusta. Howard Schultz e Antonio Percassi, con il figlio Matteo, non si conoscevano nemmeno fino a quando la famiglia Moratti non li ha fatti incontrare. E da quel momento non si sono più lasciati, uniti dalla stessa filosofia imprenditoriale, dal rispetto reciproco e, soprattutto, dalla voglia comune di aprire Starbucks in Italia. Tutto quel che gira intorno al caffè nel bicchierone di carta, inventato da Schultz, faceva gola anche a un italiano dal fiuto industriale di lungo corso, ben noto per aver sviluppato tanti punti vendita di Benetton, socio italiano di Zara quando il marchio spagnolo arrivò in Italia e così per Nike (aperto da poco il più grande negozio d’Italia, il sedicesimo, in corso Vittorio Emanuele) e poi Lego, Victoria Secret, Armani Exchange. Senza dimenticare il cuore nell’Atalanta. Cammina cammina, dopo aver visitato parecchi potenziali immobili, è arrivato il colpo di fulmine: l’ex palazzo delle Poste al Cordusio. Al punto da farne il punto vendita più importante al mondo con la sua Starbucks Reserve Roastery, 2.300 metri quadri con tanto di torrefazione, preparazione e miscelatura del caffè, chicchi di Arabica provenienti da trenta paesi del mondo e tostati per la prima volta in Europa.
L’inaugurazione è passata alla storia del marketing, e del costume, almeno milanese: impossibile entrare dalla ressa, giorni e giorni di code, come se Milano avesse finalmente trovato la sua acqua nel deserto, e non aspettasse altro. Ma ancora oggi, mesi dopo, ci sono ancora le code interminabili durante il weekend, e dentro non ci si sente mai soli. Il successo, forse, è stato anche l’attesa. “Non strategica – racconta Roberto Masi, amministratore delegato di Starbucks Coffee Italy – si doveva trovare il luogo giusto e, per oltre un anno, abbiamo studiato come unire due culture, americana e italiana, sul tema del caffè”. Del resto il legame tra Schultz è leggenda: fu trent’anni fa, in viaggio con la moglie, dopo aver guardato cosa accade in un qualsiasi bar italiano, dall’espresso allo sfogliare un giornale, pensò di replicarlo dalle parti sue. “E ci ha costruito attorno 30 mila punti vendita nel mondo. Il primo store, a Seattle, è ancora aperto ed è un punto di riferimento, quasi un museo, identico come all’epoca, piccolissimo ma diventato un’icona”.
Milano era una tappa fondamentale, da qui bisognava partire per la conquista dell’Italia. “I fatti sono sotto i nostri occhi, qui è nato il punto vendita che rimarrà unico in Europa per parecchio tempo. La famiglia Percassi ha l’esclusiva per i prossimi anni per sviluppare l’Italia, e Starbucks di trovare una strategia di sviluppo adeguata”. A cominciare da piccoli aggiustamenti che andavano fatti per il mercato italiano. “Sia Percassi che Schlutz erano d’accordo nel capire cosa significa il caffè per gli italiani e cosa invece vuol dire Starbucks per il luogo dove viene aperto. Abbiamo unito le due esperienze: qui da noi l’espresso è sinonimo di caffè, per Starbucks è tutto quello che può ruotare intorno all’ingrediente caffè. Così, accanto al bicchiere di carta o di plastica ci sono le tazze e tazzine da cappuccino e da caffè in ceramica, all’italiana. Perfino introdurre il cucchiaino d’acciaio è stata una conquista perché in Starbucks non esiste. E prezzi italici perché il posizionamento mondiale è più alto, almeno due euro o due dollari per un caffè”. Comunque, è stato un successo. Al punto che gli Starbuks milanesi sono diventati già tre, a parte la Roastery (investimento top secret) e con progetti d’espansione non da poco negli anni futuri. “In Cordusio la gente va anche per visitare un luogo straordinario. In via Borgogna, Corso Garibaldi e Malpensa, gli altri indirizzi, non ci aspettavamo un successo iniziale di questa portata. Tra i quattro prodotti più venduti, due tipici Starbucks (frappuccino e caramel macchiato) e due italiani (espresso e cappuccino). Solo nel mese di dicembre nei tre store, escluso Cordusio, sono state bevute 20 mila tazze tra caffè e cappuccini senza contare le altre bevande tipiche del marchio americano”. Saranno proprio questi tre più piccoli punti vendita a fare da modello: “Abbiamo l’ambizione di aprirne almeno dieci in tutta la città entro l’anno, vicino alle università Bocconi, Cattolica, Statale e accanto ad alcuni ospedali. E due tre a Roma, dove ancora non ci siamo, e dove pensiamo di approdare durante l’anno. E altrettanti l’anno prossimo, se siamo bravi. Investimento per punto vendita? Tra i 600 e i 700 mila euro. Siamo ottimisti trainati dal successo dei primi”.
L’Italia non è Milano, però. “Il nostro successo non può essere legato solo a Milano. Ma ci vuole prudenza in città come Venezia, Firenze, e realtà minori dove il legame con il bar è molto più forte. Anche il milanese che viene qui respira un’aria internazionale e questo è uno dei valori. Qui non c’è l’atmosfera del bar italiano, le persone ci lavorano, studiano è diventato un punto di lavoro”. Uno Starbucks in Galleria sarebbe il massimo. “Per carità. Noi vogliamo essere una realtà di quartiere, la Galleria è dove ci sono le boutique. Anche il Comune vuole i super brand e non la ristorazione commerciale. Noi siamo un bar democratico, in Galleria c’è il salotto. La nostra clientela base sono prima di tutto i giovani. Certi luoghi sono respingenti. Il nostro bacino sono le università. Vogliamo essere vicini alla gente per entrare nelle abitudini degli italiani”.