La città di Arlecchino
Strehler, l’identità milanese e un brand mondiale. Da stasera lo spettacolo teatrale cambia attore. Un rito di passaggio
Un abbandono italico al ritmo, all’invenzione immediata, al gesto mimico, all’iperbole dell’immagine, insieme a un classico rigore – e sono rifluiti in noi antichi umori che non si erano perduti, attraverso le generazioni teatrali”. Siamo cresciuti così, a Milano, nel mito di una maschera da gatto e di un vestito di pezze che avrebbe dovuto riassumere lo spirito dell’italiano medio e quello della tradizione d’arte. “L’Arlecchino di Strehler”, per antonomasia e nella definizione di tutti, e non più dunque “di Goldoni”. L’“Arlecchino servitore di due padroni” che dal 1947 – anno in cui, a luglio, come ultimo spettacolo della prima stagione dell’allora nuovo teatro milanese fu messo in scena per la prima volta – in Italia e in Europa ha segnato un’abitudine tanto milanese quanto il “camparino”.
“Ma al di là di tutto ciò, per il pubblico “Arlecchino servitore di due padroni” è e deve essere puro divertimento che il nostro grande Carlo Goldoni (ben più grande altrove che qui, certo) prima di avviarsi sul difficile cammino della “riforma” ha voluto lasciarci, a memoria di un’epoca favolosa ed estinta, con un garbo e una misura ritmica ammirevoli”. Così ancora Strehler proseguiva nelle note di regia all’edizione del 1954 per la tournée in America Latina. Arlecchino è “il mondo degli equivoci”, il mistero, l’illogico, la forza dell’assurdo, la libertà di spararla grossa e farla franca, la “felicità di esistere” alla faccia delle difficoltà. Insomma, lo spirito milanese più puro che negli anni Ottanta sedette sulle poltrone in pelle della città da bere e che oggi permette alla metropoli di far salire le sue torri.
Siamo cresciuti così: con le famiglie della Milano bene unite a quelle dei quartieri popolari nel portare, appena l’età lo permette, i piccoli a vedere quell’Arlecchino, come un appuntamento iniziatico. Se lo capisci, se ti diverti, se accogli quella vertigine variopinta, se te le freghi di guardare dietro la maschera e ti abbandoni alle acrobazie fisiche e verbali di chi è costretto a far della servitù – e quindi della condizione umana – una filosofia gradevole o addirittura esilarante, sei pronto per un’altra fase della vita.
Da stasera, quelle note di regia, e molte altre che Strehler ha lasciato in eredità ai suoi Arlecchino presenti e futuri, sono il viatico di un nuovo corpo e voce di Arlecchino: debutta – ufficialmente proprietario del ruolo di protagonista nello spettacolo italiano più visto nel mondo – Enrico Bonavera, che fino al 9 giugno sarà l’Arlecchino di Strehler al Piccolo Teatro Grassi. Da quel 1947, Arlecchino ha avuto undici edizioni e tre grandi interpreti: Marcello Moretti, Ferruccio Soleri – che per questo ruolo è entrato nel Guinness dei primati, quasi sessanta anni di scena – ed Enrico Bonavera, appunto, che dal 2000 è stato Brighella, oltre a essersi sempre alternato con Soleri nel ruolo del titolo. Ma Ferruccio Soleri è stato quello che, per i milanesi, ha dato il colore al tramvai della commedia e ci ha fatto prender confidenza con movimenti, toni e salti tipici e stereotipici, ce li ha radicati dentro, dall’infanzia. E si sa che quando si cambia il colore ai tramvai, i primi tempi è dura: si stenta a riconoscere ciò che fino al giorno prima ci dava sicurezza di capire e amare e prender la strada di casa.
Duemiladuecentoottantatré volte per altrettante repliche Soleri ci ha indicato quella strada, fatta di risate anche amare, fino a che nel 2018, a 88 anni, ha detto addio alla “sua” maschera, dopo quasi sessant’anni in sua compagnia. La prima volta fu a New York, nel 1960, per sostituire Marcello Moretti: “Tremavo dalla paura e fu Paolo Grassi a darmi una spinta per entrare in scena”. Da quest’anno lascia il testimone a Bonavera, che per anni si è anche alternato a lui sul palco: è stato Soleri a presentarlo a Strehler e, preso al volo dopo l’audizione, è stato Bonavera, una volta giunto il momento, a chiedere di essere il suo sostituto.
Questo ci attende stasera: a sventolare sarà sempre la bandiera di Arlecchino, ma a portarla sarà un corpo diverso, una voce diversa da quella che abbiamo ascoltato nella nostra Milano d’infanzia e nella Milano dei nostri figli o nipoti. “Ci siamo trovati nel vuoto ed abbiamo dovuto compiere le nostre acrobazie senza rete di protezione” scrive ancora Strehler a proposito di questo suo spettacolo. “Abbiamo insomma dovuto ‘riinventare’ dentro di noi qualcosa, al di là della cultura e della storia”: vediamo se, dopo stasera, il miracolo accadrà di nuovo e se la storica maschera da gatto costruita dalla famiglia Sartori – che comunque Soleri insieme a Stefano De Luca sorveglia dalla regia – è stata lasciata in buone mani.