Che risultato si aspetta Milano dal derby delle europee?
Poca politica, più apertura. “Il sovranismo nelle città non esiste”, ma serve credibilità, dice Stefano Caselli, professore ordinario del dipartimento di Finanza dell’Università Bocconi
Ogni partito che si rispetti, alle Europee, avrà la sua linea Maginot. Pena la sconfitta. Per Matteo Salvini, che fino a una decina di giorni fa aveva il vento in poppa, ora, il limite sotto il quale non può scendere, per non sentir parlare di “sconfitta”, è il 30 per cento. Diverse le sorti del movimento che fu di Beppe Grillo, che dopo una rovinosa caduta nelle ultime elezioni amministrative (e nei sondaggi), dovrebbe attestarsi sopra il 20 per cento, per evitare il ritorno alle origini, nelle mani del “turista per caso” Alessandro Di Battista. Per Nicola Zingaretti l’immaginaria linea della sconfitta passa sotto il 20 per cento. Silvio Berlusconi si accontenterebbe di superare il 10 per cento, per non mettere in liquidazione Forza Italia. Questo il dato nazionale, come si sa. Nella capitale del Nord, e nella sua regione, le cose vanno ovviamente in modo diverso, la partita nel (centro)destra è il gatto col topo, inteso Forza Italia, non farsi fagocitare dalla Lega. E per il Pd l’asticella è ovviamente più alta. Verrà Nicola Zingaretti a chiudere la campagna elettorale, al Parco Sempione, la strana coppia Renzi-Calenda si è riunita l’altra sera con gran successo di pubblico. Un Pd (almeno formalmente) unito e che scommetta su Milano è, ancora una volta, la vera chance per il futuro.
Milano però sta già guardando oltre il 26 maggio oltre i conti della pura politica, che attrae poco, a parte il “Salvini sì-Salvini no”, più che altro una cosa da lenzuola ai balconi. La vera necessità è consolidarsi come la grande piattaforma del made in Italy, della ricerca e della innovazione. Ma Milano, isola felice e fino ad ora disattenta all’appuntamento di domenica prossima, che risultato si aspetta? Stefano Caselli, professore ordinario del dipartimento di Finanza dell’Università Bocconi e prorettore per l’Internazionalizzazione, dice al Foglio che Milano, come tutte le grandi città del mondo, ha gli anticorpi contro il sovranismo, “non è nel Dna delle grandi città come Milano, come Londra o Parigi (benché in sofferenza), New York e Chicago o Shanghai. Se guardo alle grandi capitali devo dire che il sovranismo non esiste. Il successo e la forza delle metropoli è la totale apertura, non c’è un caso al mondo che dimostri il contrario. Una grande città è tale perché è aperta”, insiste Caselli.
Ma veniamo alle prospettive: cosa si può attendere Milano dalla nuova Commissione europea, dopo il 26 maggio? “Non c’è corrispondenza diretta tra le elezioni Europee e la realtà di Milano, la catena è piuttosto lunga e non vedo automatismi”, spiega il professor Caselli. “Milano sta vivendo una stagione speciale, sta crescendo in visibilità, investimenti, capacità progettuale. E poi ha questo appuntamento di giugno (le Olimpiadi invernali del 2026, ndr) che, pur non essendo la panacea, rappresenta un altro tassello in grado di rendere ancora più potente il fenomeno Milano”. La città cammina, o meglio corre, e la responsabilità di farle tenere il passo “è di tutti noi e dobbiamo alimentarla”. Certo è che se il paese dovesse trovarsi isolato – come oggi – su posizioni populiste-sovraniste, qualche ripercussione negativa potrebbe arrivare. “Indubbiamente vedrei più di un problema se il paese, dopo il voto, venisse marginalizzato dall’Europa, sarebbe un guaio anche per gli investitori che tenderebbero a scaricare i nostri titoli di Stato”. “Se, come immagino, il Parlamento europeo dovesse avere un assetto stabile, toccherebbe all’Italia decidere la propria collocazione. In ogni caso Milano potrebbe emergere come una realtà a parte”, insiste il professore “in fondo, ha incassato bene anche la perdita dell’Agenzia europea del farmaco, non ha perso immagine e ha tirato diritto. Milano ormai è nel radar delle grandi”, conclude Caselli.
Guarda al domani anche il mondo delle fondazioni bancarie che a Milano gioca in attacco con Fondazione Cariplo che, dal 1991 – anno della sua nascita – ha sostenuto più di 30 mila progetti realizzati da enti non profit, con erogazioni per un importo complessivo di circa 3 miliardi di euro e una media di mille iniziative finanziate annualmente. Il 28 maggio, due giorni dopo il voto, Giovanni Fosti, il 52enne direttore dell’Education for government & non profit della Sda Bocconi, dovrebbe succedere a Giuseppe Guzzetti. Impresa non facile. E proprio in questi giorni, a Parigi le fondazioni, con l’European Foundation Centre, stanno scrivendo il loro Manifesto del dopo voto. 700 rappresentanti della filantropia internazionale (erano 600 l’anno scorso a Bruxelles) sono riuniti a Parigi per la Conferenza annuale. Il tema scelto fa a pugni con l’idea sovranista: “Liberté, égalité, philantropie”. Efc è un network che riunisce circa 300 organizzazioni europee e statunitensi, appartenenti a 40 paesi, ma con rapporti aperti anche con organizzazioni di Cina e Africa. Di queste 300, le organizzazioni italiane sono 36, di cui 24 fondazioni di origine bancaria, che distribuisce circa 22 miliardi all’anno attraverso vari progetti. Il Manifesto chiede un mercato unico della filantropia, che per i capitali filantropici paradossalmente non c’è. E che invece proprio una città come Milano – Fondazione Cariplo ma non soltanto lei – dimostra quanto sia importante per uno sviluppo armonico. Tra i punti del Manifesto: riconoscere la filantropia permettendo il riconoscimento della personalità giuridica, e coinvolgerla nelle decisioni; facilitare la filantropia transfrontaliera, consentendo fusioni e spostamenti di sede all’interno della Ue. A distanza di anni luce dai principi sovranisti. “Se si vuole unire l’Europa e convincere i popoli che il sovranismo è un’idea piccola e sbagliata – dice al Foglio Massimo Bonini, segretario della Camera del lavoro di Milano – è necessario che l’Unione si occupi di temi alti e importanti, anche per ridurre le diseguaglianze tra un paese l’altro”. Ma cosa si aspetta il mondo del lavoro dal prossimo Parlamento europeo? “Occorre ridurre le differenze tra gli stati. Quando abbiamo allargato a est c’è stato subito un gap di salari, tutele, welfare, tutto a vantaggio del sistema che vuol competere solo sul taglio dei prezzi, col costo del lavoro che ha prodotto la delocalizzazione delle nostre fabbriche”, spiega il segretario della Cgil. “Iniziamo a riflettere anche sul salario minimo europeo, in modo che si possano eliminare le differenze ma si ragioni anche su sistemi fiscali omogenei (il caso Irlanda è macroscopico)”. Che riflessi potrà avere il voto di domenica prossima? “Mi auguro che il fronte sovranista ne esca ammaccato. Ma anche a Milano qualcosa deve cambiare, perché non basta alzare la bandiera della diversità. Milano, che rappresenta un’eccellenza a livello globale, deve cambiare strategia perché nascondere i problemi è sbagliato”. Ad esempio sul versante della casa, che fa rima col disagio delle periferie e delle fasce deboli che alimentano il voto populista e “anti élite”. La Cgil chiede un colpo di acceleratore, mettendo in campo risorse e proposte, “perché non basta la rigenerazione urbana, o dire che il mercato immobiliare tira”. Su questo e su altri aspetti, molto possono fare i fondi strutturali europei. Come sa bene Beppe Sala, che ha saggiamente scelto di bypassare i progetti di spesa per la riapertura dei Navigli, e e cercare di ottenere dalla Commissione europea finanziamenti per piani più strategici. Ma come lo stesso Sala aveva detto, a proposito della Tav, la perdita di credibilità a livello europeo che l’Italia (dunque non solo Milano o Torino) rischia potrebbe avere conseguenze di lungo termine. Per Milano, le Europee sono anche una questione di credibilità di sistema.
Ma il modello Milano, dopo il voto, avrà forse bisogno di un restyling. E la prova generale scatterà il 24 giugno, quando a Losanna il Comitato olimpico deciderà se i giochi invernali del 2026 saranno ospitati da Milano (e Cortina). Beppe Sala e Attilio Fontana ce l’hanno messa tutta, mentre il governo (a parte il sottosegretario Giorgetti) s’è defilato. Sul piatto ci sono un paio di miliardi, tanti posti di lavoro e, come ha scritto qualche giornale, “la simpatia di Alberto Tomba, i vestiti di Giorgio Armani, le parole di Mogol, la musica di Ennio Morricone e la regia di Marco Balich”. Basteranno.