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È meglio combattere il coronavirus o discutere della Sanità regionale?
Il caso Codogno e il caso direttive del ministero. Nessuno è perfetto ma dietro si nasconde una guerra politica. Rimandabile
Dividersi in tifoserie davanti all’emergenza coronavirus è un po’ come trasferire la strategy room al bar sport. C’è poco da ridere. Perché lo scontro tra curve c’è stato – o quantomeno si è rischiata da vicino la collisione – e a pagare un prezzo alto è la Lombardia, sia in termini strettamente sanitari, che per il personale sanitario sotto pressione, che per la valutazione dell’intero sistema della Sanità regionale. Detto che le strutture stanno reggendo l’urto, e anche la preparazione a possibili (ma sembra non probabili) picchi emergenziali è stata messa in atto, resta da farsi qualche domanda di fondo.
Walter Ricciardi, dell’Oms (da qualche giorno consulente del ministro della Salute, Roberto Speranza, per le relazioni con gli organismi sanitari internazionali) ha ricordato che, mentre il coordinamento della Sanità in molti paesi europei è gestito dal governo centrale, in Italia il decentramento ha assegnato alle regioni sia le funzioni legislative sia quelle amministrative. Fatta salva la pioggia di circolari e protocolli che il ministero della Sanità ha facoltà di trasmettere. Ed è a questo livello (circolari e protocolli) che non tutto ha funzionato a dovere. Fino alle dichiarazioni (poi molto smussate) di Giuseppe Conte sulla gestione dell’ospedale di Codogno che hanno provocato la polemica con Attilio Fontana e richiesto l’intervento pacificatore di Sergio Mattarella. Così il rischio che anziché combattere il virus ci si metta a discutere del modello sanitario lombardo è alto. L’assessore alla Sanità Giulio Gallera, parlando con il Foglio, assolve invece il sistema: “Gli ospedali lombardi hanno seguito tutte le procedure definite dal ministero della Salute per individuare coloro che arrivavano dalla Cina”. Resta l’interrogativo: cosa non ha funzionato? Meno assolutoria è Carmela Rozza, consigliere d’opposizione (Pd) in regione che snocciola i documenti sul coronavirus. “Il ministero della Salute – spiega – il 22 gennaio ha mandato una circolare a tutte le regioni, quindi anche alla Lombardia, precisando alcune cose. Oltre a segnalare i casi sospetti determinati dal contatto con persone provenienti dalla Cina, gli ospedali erano tenuti a individuare e segnalare tutti i casi di polmonite, che poco avevano a che fare con la storia clinica del paziente. È il caso del paziente di Codogno. Nella circolare era previsto anche che si organizzasse un’accoglienza separata a chi si rivolgeva al pronto soccorso per motivi respiratori”. Secondo Rozza “si rendeva necessario isolare fin da subito chi aveva questi sintomi, per garantire un percorso a parte in modo tale che il paziente – se sospetto di coronavirus – doveva essere seguito se possibile da personale dedicato che non curasse altri pazienti. A Codogno hanno rimandato a casa tre volte il paziente numero uno, il quale si è presentato nuovamente assieme a tutti gli altri. Qualcosa non ha funzionato all’ospedale di Codogno. La domanda che mi faccio è: ma negli ospedali lombardi tutto ciò che era stato raccomandato dal ministero della Salute è stato osservato?”.
In realtà non è tutto così lineare come Rozza pretende. La prima circolare del ministero del 22 gennaio è assai generica, per quanto avrebbe dovuto innestare uno sforzo di interpretazione in più. Quella del 27 gennaio non segna passi avanti, bisogna aspettare la comunicazione del 22 febbraio per ritrovare le indicazioni cui fa cenno Rozza. Il caso del paziente 1 è evidente, ma il resto finisce per dare formalmente ragione a Gallera e torto al ministero. Il che non allontana però l’idea di un concorso di colpa tra due sistemi (stato e regioni ) poco comunicanti.
Su questo aspetto, il Foglio ha approfondito il tema col professor Francesco Longo, del dipartimento di Analisi delle Politiche e Management Pubblico presso l’Università Bocconi,. “Il coordinamento non è necessariamente garantito da una funzione centralizzata, ma può essere ottenuto anche con altri modelli, che si sviluppano dal basso attraverso le regioni. Così come attraverso un livello più sofisticato, che è quello che permette al centro e alle regioni di incontrarsi allo stesso tavolo. E’ così che il coordinamento può trovare una sintesi”. Spiega: “La collaborazione, dal basso e dall’alto, può rafforzarsi e generare un sistema unitario. Siccome siamo italiani abbiamo scelto il tavolo della Conferenza stato-regioni, dove la Sanità, materia di entrambe i livelli, trova il coordinamento. Questa cosa funziona se le parti condividono una visione comune”. E in questo caso come è andata? “I primi giorni dell’emergenza tutto è andato benissimo, poi invece non è parso vero ci fosse la possibilità di litigare anche su questo. Dobbiamo decidere se abbiamo una cultura concertativa o se ci arrendiamo e diamo il potere a un uomo solo”, è la riflessione di Longo. Con tutta la buona volontà, però, qualche abbaglio è stato preso, “giustamente la questione è stata messa al centro dell’agenda di policy, dove lavorano sia la politica che la tecnica. A tutti i tavoli d’emergenza ci sono i vertici della politica e quelli della tecnica. Ho la sensazione che la decisione finale la prendano i vertici politici, senza ascoltare fino in fondo i tecnici. E quindi le decisioni sono state prese con un eccesso di attenzione politico-mediatica e insufficiente attenzione tecnica, con errori gravissimi”. Ad esempio quali? “Il più clamoroso: chiudere le università e non obbligare gli studenti a stare a Milano, permettendo loro (molti fuori sede) di girare per il paese. Dal punto di vista della Sanità pubblica è come tirare il rigore nella porta sbagliata”.