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Il sistema Lombardia allo stress test del coronavirus: rimandato con danni
La regione ha pensato in un primo momento di poter affrontare la crisi da sola, in base alle sue pratiche virtuose, muovendosi prima e un passo avanti. Ma si è trovato nel vortice di una situazione di caos
Un po’ di cronistoria può aiutare. La strada emergenziale del “chiudete tutto” è stata imboccata in ordine sparso a seconda dei margini di autonomia, già da sabato 22 febbraio, in attesa che da Roma arrivassero direttive chiare e univoche. Le università come il Politecnico e Bicocca, gli uffici aperti al pubblico della procura guidata da Francesco Greco (“dobbiamo evitare che si ammali qualcuno”). Intanto Beppe Sala si mette al lavoro a Palazzo Marino, si comincia a sospendere le attività lavorative dei dipendenti dell’Amministrazione “che provengono dai comuni ove sussiste un cluster di infezione”. Intanto a Palazzo Lombardia si lavora per conto proprio, la Sanità è regionale, poi finalmente arriva il tavolo in prefettura. Nel frattempo il sindaco di Milano ha deciso la chiusura delle scuole cittadine, scelta che ricade, in una domenica di passione, anche sui comuni della Città Metropolitana, ma fatta senza agire da sindaco della Città Metropolitana. Malumori dei sindaci. Le cose si chiariscono quando, dopo una domenica di caos mediatico inenarrabile, finalmente a Roma partoriscono il decreto d’urgenza e Attilio Fontana, Sala e pure l’assessore alla Sanità Giulio Gallera possono appoggiare una parte della propria ansia sulle spalle del governo centrale.
La sintesi è questa: il sistema lombardo ha pensato in un primo momento di poter affrontare la crisi da solo, in base alle sue pratiche virtuose, muovendosi prima e un passo avanti. Ma si è trovato nel vortice di una situazione di caos in parte autoindotto, in parte generato da una debolezza istituzionale in tema di competenze mai risolta, con l’aggiunta di una rivalità politica evidente. Ad a aumentare le difficoltà, un governo centrale francamente caotico, con il premier Giuseppe Conte ha a un certo punto ha giocato la carta sbagliata di scaricare sulla Sanità lombarda le responsabilità, nel giorno in cui la situazione nazionale dava l’impressione di essere più critica. Se il sistema lombardo – politica, servizi sanitari e pubblici, università – ha (inconsciamente) provato a interpretare l’emergenza coronavirus esplosa ai suoi confini meridionali come se si trattasse di uno stress test, i risultati non sono stati brillanti. Sono emerse molte criticità. Ma questa è la superficie.
Che la Lombardia fosse fra le parti del paese più sotto stress era noto anche prima del Codogno day. Le ricadute e le previsioni economiche del virus, i problemi della Fashion Week che lasciavano intravvedere quel che sarebbe poi accaduto col Salone del Mobile (in realtà il rinvio a giugno, senza cincischiare, ha contribuito a ridare sicurezza al mondo produttivo e agli operatori), gli allarmi degli economisti e delle associazioni di settore segnalavano che la Lombardia sta vivendo, più che altre regioni, l’emergenza virus su una corda tesa e con pochi margini di sicurezza. A tutto questo va aggiunto lo scontro politico, sotterraneo o ricondotto nelle sponde della buona creanza, ma reale. Mettere sotto accusa la Sanità lombarda è colpire direttamente l’idea di autonomia a lungo cavalcata dalla Lega, e dal leghista di vecchia scuola Attilio Fontana, che infatti dopo le parole di Conte ha subito replicato sul punto. Ma allo stesso tempo, una Lombardia che va in affanno, con le scuole chiuse e i capannoni fermi è il peggiore spot per l’autonomismo che si possa pensare. Esattamente come con la crisi del 2008, il sogno opposto di un’Italia meno regionalizzata torna ad aleggiare come strumento per indebolire il partito oggi di Salvini. Il neo colbertismo sanitario appare più tema politico che di buona gestione.
Ieri è stato il giorno di un iniziale capovolgimento, quantomeno psicologico. Dopo giorni di allarme rosso, si sono sentite le prime voci ispirate al “keep calm”. Mentre la dichiarazione (attesa per tutta la giornata) del presidente di Assolombarda, Carlo Bonomi, suona come un allarme, ma anche come un robusto invito al governo a non complicare inutilmente il già difficile lavoro lombardo: “Fermare la Lombardia, che era già in forte rallentamento, significa frenare oltre un quinto del pil italiano e dare un duro colpo a tutta la filiera dell’industria, che rischia di impiegare mesi a recuperare lo svantaggio economico con il resto del mondo… Occorrono immediati interventi normativi che introducano misure di sostegno alle imprese sia di natura finanziaria, sia di sostegno al lavoro e sia di politica estera. Non sono sufficienti le poche misure adottate e ipotizzate finora. Oltre al danno economico va considerato il danno reputazionale, che avrà un impatto significativo sulla nostra economia nel medio e lungo periodo. Prepariamoci a lavorare duramente per recuperare la nostra credibilità internazionale. Ogni giorno che rimaniamo fermi diamo un colpo al cuore dell’economia italiana, cioè al nostro futuro”. Una delle letture di più lungo periodo che inizia ad emergere è che possa finire l’effetto Expo che ha tanto contribuito a fare la differenza, non soltanto di immagine, non soltanto di turisti, ma di investimenti, attrazione economica, di cui Milano ha beneficiato a partire dal 2015. Una minaccia invisibile, come un virus.