Perché la moda può farcela, anche se tocca chiudere per un po'
Quest’anno, il coronavirus potrebbe dettare il calendario e il tempo si potrà recuperare, si spera, dopo Pasqua
Chiudono uno dopo l’altro i negozi della moda: è partito l’altro ieri Sandro Veronesi con la rete di Calzedonia (“non vendiamo articoli di primaria necessità, ci è sembrato giusto fare quanto in nostro potere per tutelare tutti”); è seguito Giorgio Armani con hotel e boutique dopo aver fatto una donazione di 1,25 milioni di euro a quattro aziende sanitarie nazionali fra cui il Sacco, e via via chiuderanno senza alcun dubbio tutti gli altri almeno fino al 3 di aprile. Ma l’attività prosegue, fra le precauzioni necessarie, perché gli ordini sono in crescita.
Il governo ha deciso di sospendere tutte le attività produttive tranne quelle indispensabili: Attilio Fontana, il governatore della Lombardia, ha dichiarato di aver raggiunto un accordo con Confindustria per un eventuale stop. Anche se questo accadesse, nel sistema della moda italiana verrebbe danneggiato solo una parte relativa alla filiera, quella della produzione che attualmente sta lavorando sulla preparazione dei tessuti e dei pellami per le confezioni. E infatti, due fra i maggiori produttori mondiali di tessuti di altissima qualità, le storiche seterie comasche Ratti e Mantero, hanno appena annunciato di volersi impegnare “in caso di necessità”, a “condividere prodotti e materiali, a rendersi backup produttivo l’una dell’altra secondo i carichi di lavoro” e a “intraprendere una linea decisionale condivisa a tutela dell’attività produttiva, dell’evasione degli ordini in corso e della salvaguardia dei posti di lavoro”.
Le pre-collezioni inverno, in consegna a maggio, in questo momento si trovano infatti alla fase due del processo, per l’appunto quella che riguarda le aziende produttrici, dislocate perlopiù nel nord Italia, fra Piemonte, Lombardia e Veneto per quanto riguarda il tessile; in Toscana e Campania per la conceria. Il momento della produzione dei capi avverrà a fine aprile, dunque uno stop a marzo sarebbe problematico per le sole imprese a monte, che peraltro hanno già ricominciato a ricevere semi-lavorati dalla Cina e si trovano a buon punto. In caso, in piena ottica solidale, sono disposti a collaborare: lo scorso anno, le vacanze di Pasqua coincisero con una lunga serie di altre festività e le aziende rimasero chiuse sostanzialmente per tre settimane. Quest’anno, il coronavirus potrebbe dettare il calendario e il tempo si potrà recuperare, si spera, dopo Pasqua.
Fulvia Bacchi, direttore generale di Unic-Lineapelle, conferma che, fino a fine aprile, le aziende associate “hanno ordinativi quasi superiori alle capacità produttive”. Eventuali Cig si potrebbero richiedere per il periodo giugno-luglio. Ma forse anche no. Il disassamento del sistema moda rispetto al normale calendario si sta infatti rivelando una incredibile fortuna. Ci sono ordini sufficienti a coprire perfino le esigenze dell’e-commerce che, come atteso, marcia a pieno ritmo. José Neves, ceo della piattaforma Farfetch, ha dichiarato a Vogue Business di non avere intenzione di rivedere i budget, e lo stesso lascia intendere al Foglio Federico Marchetti, presidente e ceo (quest’ultima carica fino al prossimo anno) di Ynap. Business as usual. Anzi, meglio: dopo qualche mese di andamento “riflessivo”, fra ottobre e dicembre del 2019 le commesse erano infatti ripartite molto velocemente, tanto che tutti i bilanci diffusi in questi giorni, fra cui quello di Ferragamo e di Aeffe presentano dati di ricavi in crescita attorno al 2-3 per cento e si dichiarano attendiste solo e come logico sul prossimo semestre. Insomma, ci si organizza, e se alcuni analisti del settore segnalano una frenata sugli ordini wholesale, in particolare in relazione al cosiddetto “asian fit”, le misure specifiche per il mercato asiatico, molte altre aziende raccontano di un maggiore ricorso alle piattaforme di presentazione e vendita virtuale come Joor. Si manda al cliente la chiave di accesso, e si lavora come in una normale showroom.