Lettera da Brescia. Il nostro Dna immobilizzato e il fattore umano
Non sono giorni duri, sono giorni durissimi. Qui non siamo abituati a darci per vinti, e siamo vinti. Qui non siamo abituati a non far nulla, e siamo fermi
Dal cuore rovente del disastro, non c’è cronaca da fare: la mia città è un regno di ombre. E per gente come noi, solida e di robusto impianto, concreta sia per natura che per cultura, gente che ha l’ethos del fare e della prassi e il destino del lavoro impresso nel Dna, per la superba autarchia pragmatica che ci contraddistingue nel bene e nel male, per la buccia aspra della nostra identità che in realtà è più sfaccettata di quanto si creda (Piovene scriveva: “Quella di Brescia è una delle provincie più contrastanti e sorprendenti d’Italia”), per il netto rifiuto morale al “non ci riesco” e al “sono stanco” con cui veniamo allattati anche un po’ irragionevolmente, be’, come negarlo? Non sono giorni duri, sono giorni durissimi. Qui non siamo abituati a darci per vinti, e siamo vinti. Qui non siamo abituati a non far nulla, e siamo fermi. Qui respingiamo le difficoltà con la superstizione e la passione della fatica che ci pulisce e ci fa sani, e siamo malati e infettati. Adesso si sentono le ambulanze andare e venire, le strade sono vuote, le piazze spazzate dal vento e dobbiamo prendere dolorosamente atto dei fatti. Ma non li abbiamo sempre preferiti, i fatti? Non ha scelto, la nostra ruvida operosità innata, di farci fare sempre e soprattutto quelli? Perché adesso ci tradiscono? Perché adesso ci inchiodano? Qui è inammissibile quel che ora siamo costretti ad ammettere. Qui, per la prima volta, vince l’inamovibilità della situazione contro la nostra consueta testardaggine a muoverla, e non si creda, non è poco, al contrario, per noi è tutto, e il discorso si fa serio, ne va del nostro carattere, del nostro spirito, della nostra cultura. Qui è chiuso il CTB, il teatro Stabile con record di abbonati, uno dei più vivaci e attivi in Italia. Qui i baristi e i ristoratori hanno deciso, primi in Europa e malgrado loro, di chiudere tutto mentre ovunque ancora si cincischiava con le mezze misure. Qui la città che maniche rimboccate o muerte, la sta affrontando davvero, la morte, e a maniche abbassate. Qui adesso si combatte con regole che non conosciamo.
Poi, per carità, si va avanti e ci si adatta. Gli insegnanti fanno lezioni online cercando di non cadere nel burrone del tutorial vivacizzato e i ragazzi fanno i compiti non si sa come e non si sa perché (e gli esami? ci saranno, non ci saranno?). Molti di noi sono preoccupati per il lavoro. A margine di tutto questo, anche un coretto di docenti tecno-ottimisti, di spigliati affermatori del “si può anche così” che elevano canti di Osanna alla – oddio – tecnoresilienza. Ma il punto non è tanto essere entusiasti per ciò che, bene o male, la sacrosanta tecnologia ci permette di fare in condizioni di emergenza. Il punto è chiederci se sia possibile una vita senza l’umano così come l’abbiamo sempre conosciuto. Senza la comunità, insomma. Per carità, “stiamo uniti stando lontani”, certo, però stando lontani siamo lontani, e una somma di persone a casa propria – per quanto oggi è giustissimo che ci stiano – non sono una comunità. Prima lo eravamo? Sicuramente in questi giorni siamo una platea permanente tempestata dall’esibizionismo parasolidale del concerto su Instagram e delle dirette Facebook dei grandi Narcisi veritativi. Siamo bersagliati dai consigli di lettura e ossessionati dall’intrattenimento come se il punto fosse sempre essere intrattenuti o non essere intrattenuti, anziché accettare questo presente odioso ma inevitabile e usarlo per non trasformarsi in cretini illuminati – perché poi, quando i balconi si placano, dalla conta quotidiana dei morti non si scappa.
Qualche giorno fa, per la prima volta in dieci giorni, sono andato a fare la spesa. E per un momento mi sono tirato su il morale. Eravamo in pochi (bene), il clima era civile e volonteroso (benissimo), le cassiere perfino spiritose (straordinario). Un tizio, mantenendosi a un rigoroso metro e mezzo, ha aiutato un anziano a riempire le sportine. Poco prima, al reparto frigo, avevo incrociato lo sguardo di una ragazza che mi aveva timidamente sorriso da dietro la mascherina. La buriana passerà, e io crederò ancor di più nella polis, nella vita viva, nella città che non si specchia in se stessa ma – malgrado tutto – ancora negli altri.