La guerra per bande politica è dannosa come un virus
Altro che concordia. Sinistra e pm attaccano gli errori della Regione, la destra attacca Roma
All’inizio di marzo la situazione nelle regioni del nord, e in particolare in Lombardia, è paragonabile a una guerra. Morti, corsie piene, economia verso il tilt. Così Sergio Mattarella fa qualcosa di importante. Chiama all’unità nazionale. Stop alle polemiche e alle schermaglie, telefona a Matteo Salvini, a Silvio Berlusconi, a Giorgia Meloni. Chiede “il massimo di unità e collaborazione”. Tutti concordano. Il sindaco di Milano, Beppe Sala, in ogni video che pubblica su Instagram ribadisce la propria volontà di non far polemica. Anche Attilio Fontana, che all’inizio mastica amaro perché vede che nella Capitale non capiscono che cosa stia succedendo in Lombardia, si adegua al richiamo del presidente della Repubblica. Ma tutto dura poco. Dopo una settimana di clausura, già a Milano veniva l’eterno prurito del fatturato, si chiedeva di aprire, perché chi sonnecchia sul divano non piglia pesci. E la preoccupazione del mondo economico, ovviamente, è sacrosanta. Figurarsi quanto sarebbe potuta durare la tregua. All’inizio di aprile la situazione in Lombardia è peggiorata, è la regione industrializzata più colpita al mondo, mentre la situazione nazionale è bloccata in una impossibilità di “riaprire” alcunché, librerie a parte. E’ ovvio (ha scritto il Foglio in un editoriale ieri) che il blocco in Lombardia (e nord) può avere un peso terribile su tutto il paese. Ma a metà aprile, in Lombardia, la situazione politica è ridotta a una guerra per bande, col contributo della magistratura. Ed è ovvio che anche questa guerra avrà conseguenze pesanti nel paese.
Fasi della campagna militar-politica. A metà marzo il governatore inizia il suo corpo a corpo con il governo, che appare come minimo distratto e come massimo colpevolmente disattento. “Credo che ci sia una percezione sbagliata a Roma, e non solo”, attacca Fontana che poi però precisa: “Non intendo fare politica con questo evento e non intendo fare polemiche né con con il governo, né con la Protezione civile”. Da qui comincia la storia che si snoda fino a oggi, in uno stillicidio di battute, veleni, assurdità. Come quelle mascherine spazzatura spedite dalla Protezione civile, che ne combina una più di Bertoldo: un’altra volta sbaglia a inviare migliaia di mascherine e poi deve avvertire tutti che non sono presidi medici. I media, all’inizio, stanno a guardare. E anche gli eserciti di famigli e consiglieri, di eletti e di wannabe. Sono storditi da tutto quel dolore che tracima da Bergamo, da Brescia, da Vo’ e Codogno. Ma tra un meme e un bicchiere di troppo in casa, tutti chiusi, tutti annoiati, tutti terrorizzati per l’inverno dell’economia che arriverà e delle ferie che fuggon via, prende il via una guerra per bande violentissima. Non è onorevole come quella gentilizia descritta da Tito Livio, non ha le alte implicazioni morali di quella descritta da Mazzini. E neppure è una guerra di guerriglia alla Che Guevara. E’ per un paio di settimane più una baruffa continua, con il cozzo di due eserciti che hanno strategie (im)precise. Regione Lombardia, avanguardia più spinta della Lega, muove decisamente contro il governo. Matteo Salvini tace? Parla Fontana. E tira sassate che vanno a segno, almeno nel primo periodo. Lo sforzo della Regione è evidente. Si mettono le basi, tutte private e tutte volontarie, giacché di soldi pubblici ghe n’è minga, per l’ospedale in Fiera Milano. Viene salutato come il simbolo della voglia di reagire di un territorio che da sempre traina l’Italia. Addirittura il Papa e il presidente della Repubblica scrivono lettere nelle quali si congratulano. La gente ancora canta dai balconi e #andràtuttobene. Però intanto a Mediglia un contagio si porta via metà degli anziani ospiti di una Rsa. E i medici di base, che hanno con la Regione contenziosi aperti ormai da anni (del resto, poche settimane prima della catastrofe, era stato Giancarlo Giorgetti a dire che a fine riforma sanitaria – di Maroni – sarebbero mancati 40 mila medici di base, “ma tanto dal medico di base non va più nessuno”). Anche i dati, che all’inizio sembrano il termometro fedele della temperatura del paese, e spaventano, inducono a rimanere dentro al pianerottolo di casa. Ma il contrattacco (della sinistra governativa ma d’opposizione in Lombardia) è pronto, e passa dai social per poi filtrare lentamente sui cartacei. Si muove su tre binari. Il primo riguarda i posti dell’ospedale in Fiera. “Dovevano essere 600, poi 400, alla fine sono 24. Pagati con soldi pubblici”. Ovviamente una parte di questo ragionamento è falsa. I soldi sono privati, delle donazioni, e non sono mai stati 600 ma – al massimo – 400. Ma erano posti di ospedale da campo, mentre qui c’è un ospedale vero e proprio, con tac interna e varie specialità. Attaccata a questo arriva la polemica sull’inaugurazione, che avrebbe causato “assembramento” per i professionisti del buffet (che peraltro non c’è). Alla fine, l’impressione è che l’ospedale di Fiera sia giunto fuori tempo massimo (poco meglio ha fatto quello degli Alpini a Bergamo) e che i soldi (donati) avrebbero potuto essere puntati altrove. Strategia sbagliata? Però la Lombardia aveva bisogno di terapie intensive, e da Roma non sono arrivati segnali.
Poi scoppia il caso delle Rsa. Il presidente dell’associazione che raggruppa 400 Rsa attacca la Regione dicendo che li hanno obbligati a prendere malati Covid. Effettivamente nelle Rsa gli anziani muoiono come mosche, ma di malati spediti dalle aziende sanitarie pare siano stati pochi, e tutti accolti volontariamente dalle Rsa, dietro contributo di rimborso per la retta. Ma nelle Rsa il caso è più complicato: perché la morte non arriva dai malati Covid degli ospedali, ma dal personale sanitario che non ha dispositivi medici: chi doveva procurarlo? Le direzioni sanitarie sono colpevoli? Chi doveva dare le linee guida? In questo bailamme entrano ovviamente i magistrati, che aprono un’inchiesta evocativa sul Pio Albergo Trivulzio. Che offre tutti gli angoli di attacco possibili a quella sinistra che flirtava ai tempi di Tangentopoli coi pm e più tardi col grillismo di onestà-tà-tà. La Baggina è il simbolo delle tangenti, è governato da un direttore generale ex amico di Abelli, ma anche ai leghisti e – se butta male – consente di tirare in ballo anche Beppe Sala perché la Rsa è di proprietà comunale, anche se il sindaco correttamente si affretta a dire che la gestione sanitaria è in capo alla Regione. Allo stato delle cose – considerando anche che le Rsa lombarde che hanno accettato pazienti Covid sono molto poche – non è chiarissimo, al di là dei capi d’accusa mediaticamente roboanti come epidemia colposa e omicidio colposo, che a risultanza penale possano sortire le indagini. Al Trivulzio è stata sequestrata anche la documentazione sui tamponi effettuati – “pochissimi”, è l’accusa sottesa – ma dall’inizio epidemia su 161 Rsa di pendenti da Milano solo 30 hanno ricevuto i tamponi. La risultanza politica è invece chiara, anche solo a leggere le interviste di esponenti lombardi del Pd: picchiare sul governo regionale (che se lo merita per molte cose) e distogliere l’attenzione dalle mancanze del governo centrale e agenzie collegate per gli inspiegabili ritardi sulle loro competenze. A far da contorno, ci sono addirittura richieste di commissariamento della Sanità regionale. Il terzo fronte è quello delle responsabilità, inizia Giorgio Gori (che al pari di Sala all’inizio era per il non chiudiamo niente) che va in televisione da Fabio Fazio e spara a palle incatenate sulla non chiusura di Alzano e Nembro. I social impazziscono, l’aria inizia a cambiare. La Regione, adesso, è sotto accusa. I bollettini si trasformano nel “carciofo di Berlusconi”. Giulio Gallera, che aveva la faccia rassicurante dell’assessore esperto, diventa il bersaglio giornaliero – a maggior ragione da quando ha ingenuamente riconfermato quanto tutti sanno da anni: che gli piacerebbe diventare sindaco di Milano. Ma questa guerriglia continua è resa molto efficace dall’assenza di risposte a domande precise, e molto semplici, soprattutto perché in molti casi le risposte ci sono: perché l’ospedale della Fiera è mezzo vuoto, quanti sono i malati effettivamente trasferiti nelle Rsa, se ci sono stati malati spediti o meno nelle Rsa, di chi è – leggi alla mano – la responsabilità di distribuire mascherine, camici, dispositivi medici, quante mascherine sono state ordinate e pagate da Regione, e quante sono state consegnate? Corollario, c’è l’attacco alla sanità privata. La stessa alla quale ricorreva tutta Italia, l’eccellenza lombarda, quella che genera in surplus per le cure da fuori Regione quasi un miliardo di euro l’anno. Quella che contraddistingue la Lombardia, e che fa girare un motore che ovviamente si è completamente inceppato, di fronte a un virus che non ha bisogno di eccellenza ma di posti letto, e di prossimità. Di medici normali, non di specialisti. Smantellare tutto, dicono alcuni. Ri-accentrare a Roma, dicono altri. Commissariare, dicono gli ultimi. Poi il virus passerà e si vedrà se davvero è la soluzione giusta. Ovviamente è un problema di organizzazione del sistema, non di privati. Ma a sinistra fa comodo fingere di non saperlo.
Sull’altro fronte la destra affina le armi. Il livello propaganda nazionale è affidato a Salvini e Meloni. A livello locale la strategia si concentra l’assalto a Palazzo Marino, che nei primi giorni della crisi sembrava completamente nel pallone, con Beppe Sala marchiato da #milanononsiferma e pare un anno fa. Ora il Comune sta recuperando un suo terreno d’azione – ieri ha annunciato che farà i test sierologici al Sacco per i dipendenti Atm, che competerebbero alla Regione. I leghisti lo hanno messo nel mirino, la strategia è chiara. La fase 2 è quella in cui il sindaco sarà in prima linea. La città dovrà riprendere a vivere, ma con le restrizioni. Compito difficilissimo, ma sarà sulle riaperture, sui trasporti e sul rilancio anche di immagine che Sala si giocherà tutto. E Sala, tra un anno, sarà il primo ad affrontare il giudizio delle urne. Le opposizioni a Palazzo Marino puntano proprio su quello. Disarcionare Sala, magari con l’aiuto del Movimento 5 stelle, che se a Roma governa insieme al Pd, a Milano è invece contro, proprio come la Lega. Alleviando, così, la pressione sulla Regione (tanto, su Fontana si vota tra tre anni, è il conto molto pratico) e sperando che – magari – Sala rinunci alla corsa per Palazzo Marino.
Ma da questa guerra politica ormai conclamata, rischiano di restare fuori i due veri gravi problemi: le scelte giuste da fare sull’emergenza sanitaria e la sua fase 2, e la definizione di una fase 2 per l’economia e le sue ricadute sociali. Roma è lenta, non riesce coordinarsi con le regioni, la Lombardia ha lanciato l’idea di un suo “tavolo” con sindaci tecnici e rettori universitari, ma è tutto ancora solo sulla carta. E anche dal sistema industriale non si vede una indicazione su come e chi debba ripartire prima. La ricaduta a livello nazionale della guerra politica lombarda può essere fatale.