Il dilemma del diavolo
Tra virus e ripresa. La strada stretta di Milano vista da Albertini. Le piste ciclabili no, meglio il fattore tempo
A sentir parlare Gabriele Albertini viene in mente Giancarlo Fusco, 1958, che scriveva come, nel caso di Milano, gli venisse “assai difficile dividere il bello dal buono, il paesaggio dagli uomini che lo circondano”. E sottolineava come la pace in una città venisse dall’assenza di centinaia di migliaia di persone che “si alzano ogni mattina senza sapere come mangiare a mezzogiorno”. Ora però, col virus, la questione si fa più complicata. Come si fa ad alzarsi ogni giorno per andare a lavorare e dunque a mettere in tavola un piatto o sperabilmente qualcosa di più, a sentire Ricolfi e la sua “società signorile di massa”? Come si arriva al lavoro in tempi di distanziamento sociale? E dove si lavora? E se bisogna muoversi, a che ora bisogna partire e dunque svegliarsi e dunque da che ora a che ora dovrà vivere questa città piena di gente operosa? E ancora: se lo smartworking svuoterà gli uffici, e le case dovranno essere più grandi e più attrezzate, come dovrà cambiare la concezione urbanistica della città?
“Sono quesiti pertinenti e stimolanti. Per i quali però non ho soluzioni univoche per il semplice motivo che non si sa che evoluzioni avrà il coronavirus. Diciamo che la cosa che mi pare di condividere è che questa situazione pandemica, che spero diventi epidemica, potrebbe essere endemica per la nostra società”. Fuori dal gioco di assonanze: col virus, questo o un altro, dovremo convivere sempre. “Il rischio che un agente sconosciuto scombini le nostre vite potrebbe ripetersi. Quindi le concentrazioni potrebbero essere per lungo tempo, e forse anche per sempre, qualcosa di pericoloso e poco conveniente“. Albertini ricorda di quando andò in Giappone a festeggiare il gemellaggio con Osaka: “In metro c’erano addetti ai servizi con guanti bianchi che spingevano i passeggeri per farli stare nei vagoni. Immaginatevi oggi”. Cambia tutto, insomma. “Sì, certo. Pensiamo al lavoro: sicuramente in prospettiva ci sarà uno sviluppo di tutte le tecnologie digitali. Non parlo solo delle teleconferenze che vediamo oggi. Penso agli ologrammi, che possano sostituire la propria presenza fisica. In questo contesto la visione urbanistica della città deve essere pronta a modificarsi. Ma visto che non tutte le situazioni nelle quali era richiesta la presenza potranno essere surrogate, occorreranno spazi maggiori”. Il virus spazza via le certezze. “Lo fa a suon di morti. Pensiamo che in soli due mesi di pandemia ci sono stati 30 mila morti. Per gli incidenti stradali, in un anno, 3.334. Per il lavoro, 997. Sono numeri tremendi, che ci portano a una situazione emergenziale vera. Per l’economia è la cosiddetta alternativa del diavolo: il massimo della sicurezza sanitaria è la clausura, che tuttavia è il massimo disastro economico”.
Le città devono reagire, ovviamente. Cosa sta facendo Milano? “Mi rendo conto che chi è al timone non può aspettare che finisca la tempesta. E deve fare qualcosa anche prendendosi rischi e dunque sono assolutamente solidale con chi si trova ad amministrare. Trovo però che le scelte che stanno facendo, come le piste ciclabili in corso Venezia, con marciapiedi così larghi, siano discutibili. Non sono così convinto che la soluzione appropriata sia quella di investire sulle biciclette. Non c’è solo il trasporto di persone, peraltro con una certa capacità motoria, ma anche delle merci. La spesa come si fa? E sotto l’acqua? Mi pare un provvedimento un po’ verde talebano”. Albertini propone cambiamenti più profondi: “Gli orari di lavoro vanno modulati. Faccio un esempio: durante il nostro doppio mandato investimmo 93 milioni di euro per distribuire telecamere e sensori in maniera tale da poter fare la semaforizzazione intelligente. Occorre fare lo stesso in tutti i campi poiché ore di punta non ci possono più essere, ci devono essere tutte ore di morbida. Bisogna fare i turni, tutti quanti. Non ci saranno più le ferie concentrate, i weekend concentrati, ci saranno orari di lavoro e di riposo più spalmati. Questo è più strutturale delle piste ciclabili. Il concetto è che dobbiamo usare il tempo per estendere lo spazio. Si va verso una città che non dorme mai”. Questo ovviamente pone grossi interrogativi: “Chi può permettersi questa dimensione organizzativa? Solo la grande azienda. Quindi si andrà verso la concentrazione, gli accorpamenti. La ricerca tecnologica, il cambio gestionale, richiedono organizzazioni e strutture grandi. Purtroppo non sempre piccolo è bello. E poi cambia il lavoro: la sorveglianza non sarà più sulle ore in ufficio, ma sarà solo e unicamente sui risultati. Conterà solo la produttività”. E la politica? Come se l’è cavata con l’emergenza? “Non voglio entrare nella gestione della crisi, ma mi pare che buona parte del problema sia stato un conflitto di competenze tra regione e stato. Una cosa che si sarebbe potuta affrontare con il referendum proposto da Renzi”.