Vittoria alata (foto Wikipedia)

La Vittoria alata è uno dei simboli della ripartenza di Brescia

Paola Bulbarelli

Il modello manageriale di Fondazione Brescia Musei contro la crisi. Parla il direttore Karadjov

Dopo due anni tornerà a casa, a Brescia. Dopo la seconda metà di novembre e, il suo, sarà un ingresso trionfale. Ad attenderla, mostre, eventi, un’organizzazione speciale oltre a una nuova collocazione, all’interno del Tempio Capitolino, interpretata come simbolo di una nuova rinascita, “una trasformazione del modo in cui l’archeologia viene percepita, un’archeologia viva, che è la matrice con cui lavorare sulle altre arti”, spiega al Foglio Stefano Karadjov, direttore della Fondazione Brescia Musei. La Vittoria Alata, trasferita per restauro all’Opificio delle pietre dure a Firenze, diventata uno dei simboli del Museo di Santa Giulia di Brescia, è attesa con trepidazione. La dea scolpita in bronzo in epoca romana, donata con molta probabilità alla città nel 69 dopo Cristo da Vespasiano, è al centro del palinsesto culturale 2020- 2021 della Fondazione bresciana, giocoforza diventato anche un programma di rilancio per una delle città più colpite dal Coronavirus. 

 

Alla base, un lavoro straordinario che va ben oltre le logiche del semplice museo. “Obiettivo primario della Fondazione è la tutela e la valorizzazione del patrimonio civico bresciano, vincolato dal Comune alla Fondazione che ora gestisce tutti i musei civici di Brescia, una composizione molto importante che include il sito Unesco di Santa Giulia, Brixia Parco Archeologico di Brescia romana, Pinacoteca Tosio Martinengo, Museo delle Armi Luigi Marzoli, Museo del Risorgimento, Cinema Nuovo Eden e il Castello Cidneo. Gestiti  secondo le logiche di una fondazione di diritto privato controllata da vari soci tra cui il dominante, il Comune, che ha corrisposto il patrimonio e quindi la fondazione si caratterizza da una parte per una gestione del patrimonio museale permanente e dall’altra per la valorizzazione attraverso gli eventi espositivi, gli studi, l’editoria, le mostre dei grandi temi che fanno parte del progetto strategico che ogni consiglio decide di darsi in accordo con i soci fondatori. E’ un modello pilota perché sono pochissime le fondazioni culturali che in Italia gestiscono i beni sulla base di questo tipo di concessioni”, spiega Karadjov. Brescia Musei, nata come società per azioni nel 2003 per volontà del Comune di Brescia, Fondazione CAB, Fondazione ASM e Camera di Commercio, è stata trasformata in fondazione di partecipazione per dare continuità di gestione alla partnership pubblico-privato che ha consentito la riapertura di Santa Giulia e la progressiva valorizzazione di Brescia come città d’arte, attraverso un ampio programma culturale ed espositivo. “E’ stato un modo per trovare un veicolo manageriale, gestionale e integrato che bypassasse le logiche di una divisione verticale di ogni museo che aveva le sue competenze, consentendo alla Fondazione di essere molto più veloce in tutti i meccanismi organizzativi, logistici, delle comunicazione oltre a essere più simile a un centro culturale piuttosto che a un museo vecchia maniera”.

 

Più manager che direttore?  “E’ molto sottile la differenza tra direttore di museo e di fondazione. La fondazione è una azienda e l’azienda dispone di alcuni musei che sono il patrimonio che questa azienda deve valorizzare con le sue iniziative. E’ come se fosse un gestore di un patrimonio immobiliare o finanziario che viene conferito con l’obiettivo di creare un valore che non deve essere poi capitalizzato con dividendi o con utili  ai soci ma che viene reinvestito sulle attività istituzionali della fondazione che a questo scopo è stata creata. E’ un organismo no profit a tutti gli effetti e grazie a questo beneficia di una legislazione favorevole perché di fatto è un organismo che produce un valore per il territorio. Nello stesso tempo è guidato da criteri gestionali che vogliono massimizzare anche il valore economico se non come utili almeno come risparmio”.

 

Così Brescia si presenta anche come un modello per come gestire la crisi sul versante cultura. “Il fenomeno lo abbiamo affrontato contenendo da una parte le perdite legate alla mancanza dei visitatori e dei turisti (70 per cento in meno) dall’altro cercando di dare opportunità di visite non più libere anche attraverso percorsi didattici virtuali. Abbiamo costituito, a partire dallo scorso autunno, un patto pubblico privato che si chiama Alleanza per la cultura, non aperto ai privati ma alle aziende o istituzioni del territorio che credono nel nostro progetto strategico triennale. E’ un modello molto nuovo perché propone ai soggetti non culturali del territorio, istituzioni, università, accademie, banche, aziende, fondazioni di sviluppo del territorio, di diventare degli stakeholder della fondazione culturale. Quello che viene corrisposto va ad alimentare una sorta di salvadanaio investito esclusivamente sui progetti di valorizzazione straordinari, e non ordinari che vengono finanziati dai soci della fondazione”. Questo modello di alleanza si basa sulla forte rete di relazioni che la Fondazione stabilisce con una trentina di “cavalieri del territorio”, i trenta soggetti più importanti che diversamente da una sponsorizzazione tradizionale non diventano i dominus commerciali di una iniziativa, non si esaurisce nel breve termine di una mostra, ma diventa un endorsement continuo con le attività della Fondazione. Abbiamo messo a valore sia le nostre competenze, in particolare della presidente Francesca Bazoli che sul territorio ha una fortissima competenza riuscendo a coinvolgere tantissime aziende che normalmente non aderiscono a progetti di fundresing culturale”.