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Vivi al sud e lavori per il nord. La rivoluzione del South working
Dal lockdown un'accelerazione del lavoro (e dello studio) dal sud Italia. Un fenomeno da capire. Ci prova Svimez
Il sindaco Beppe Sala lo aveva detto a giugno: “Basta smart working, è ora di tornare in ufficio”. Ma l’invito lanciato poco dopo la fine del lockdown e ancora in piena emergenza sanitaria era sembrato fuori luogo e forse anche anacronistico, rispetto all’idea di modernità suscitata dal diffondersi del lavoro da remoto. Sala, in realtà, aveva intuito che il prolungamento dello smart working avrebbe potuto avere un effetto nefasto per una città fondata sul terziario e sui servizi come Milano. E la sua preoccupazione sembra confermata ora che, al rientro dalle vacanze estive, uffici, ristoranti e negozi del centro sono ancora semivuoti e le case per i fuori sede rimaste sfitte.
Di fronte a questo scenario lunare per la capitale economica d’Italia in tanti vedono la fine di un modello e l’inizio di un processo di decentramento urbanistico, dalle grandi città verso piccoli centri e borghi. Ma anche da nord verso sud. L’iniziativa di una ventina di giovani professionisti di Palermo che lavorano tutti per società di Milano e Roma, che a giugno aveva lanciato su Facebook l’idea del South working come una nuova prospettiva di organizzazione del lavoro, è stata presa molto sul serio da Svimez, il centro di ricerche per il Mezzogiorno, che si è messo a studiare dati, flussi e accessi a internet per quantificare un fenomeno inedito.
“Non ci sono ancora dati statistici solidi, ma ci stiamo lavorando e al South working dedicheremo un capitolo del nostro prossimo rapporto che uscirà a fine ottobre – dice al Foglio Luca Bianchi, direttore di Svimez – Per il momento possiamo dire che durante l’emergenza sanitaria diverse migliaia di persone si sono spostate al sud continuando a lavorare o studiare per aziende o atenei del nord Italia, soprattutto milanesi. E in tanti stanno continuando a farlo in mancanza di indicazioni precise di rientro nelle sedi lavorative e grazie alla scelta di alcune università di attivare modalità didattiche a distanza (oltre il 10 per cento degli iscritti alle università di Milano provengono dal sud). Questo vuol dire che è possibile continuare a produrre ricchezza per il nord del paese evitando di spopolare le aree del Mezzogiorno”.
Difficile dire se siamo di fronte a un nuovo modello di organizzazione geografica del lavoro ma, secondo Bianchi, potrebbe diventarlo se anche a livello politico si cominciasse a impostare un ragionamento sul rilancio del sud con una nuova prospettiva “che non è più quella di offrire le migliori condizioni per la localizzazione delle imprese bensì per l’attrazione delle persone mettendo a disposizione, per esempio, aree attrezzate di co-working”.
Ma se i “cervelli” continuano a lavorare comunque per il nord che vantaggio avrebbe il Meridione a trattenerli? “La ricaduta positiva ci sarebbe comunque perché la permanenza su questi territori di una componente dinamica della popolazione continuerebbe ad alimentare circuiti di relazioni sociali ed economiche da cui possono scaturire nuove idee e nuove iniziative. È un’opportunità di riequilibrio territoriale e demografico che non deve essere vista in una logica di contrapposizione nord-sud ma come una nuova dinamica che se assecondata potrebbe creare vantaggi per tutto il paese”. Più facile a dirsi che a farsi.
Dati come l’eccesso di offerta immobiliare per studenti e lavoratori fuori sede che si registra i primi di settembre a Milano (più 300 per cento di appartamenti disponibili rispetto allo scorso anno) così come i tavolini di bar e bistrot deserti all’ora di pranzo sono percepiti come molto preoccupanti. In più è difficile fugare il sospetto che ci sia anche un senso di rivalsa nei confronti di Milano quando meno di un anno fa il ministro per il Sud e la coesione territoriale, Giuseppe Provenzano, ragionando sui divari territoriali, disse che il capoluogo lombardo “non restituisce nulla all’Italia”, precisando successivamente che le sue parole erano state fraintese.
Secondo il direttore dello Svimez, da quella polemica è passata un’era glaciale poiché l’emergenza sanitaria ha dimostrato che la presenza fisica in una determinata area geografica è meno rilevante e che “si può lavorare per lo sviluppo del nord anche da remoto andando a controbilanciare almeno in parte i costi dell’emigrazione dei cervelli, che abbiamo calcolato in 37 miliardi nel periodo 2000-2018 in termini di investimenti in formazione i cui benefici ricadono in altri territori”. Va detto che il tema della distanza nel mondo delle imprese e delle organizzazioni produttive orientate al digitale, di cui Milano è piena, è stato affrontato molto tempo prima del Covid come fa rilevare Mariano Corso, che coordina l’osservatorio sullo smart working del Politecnico di Milano.
“Il Covid non ha fatto altro che accelerare una tendenza che era già in atto e che non ha senso contrastare cercando a tutti i costi di riempire quello che si sta svuotando – dice Corso al Foglio – Il tema di un ribilanciamento territoriale, tra nord e sud ma anche tra centro e periferia di Milano, come tra grandi città e piccoli centri, è un dato di fatto. Lo studio di queste dinamiche che stiamo facendo con l’osservatorio ci suggerisce che Milano ha tutte le potenzialità per conquistare una nuova centralità che sia funzionale a questo trend come la creazione di spazi e servizi per lo studio e il lavoro temporaneo”.