E' possibile il libero scambio nel mercato della verità?
Nell’offerta di informazioni sul web ci sono concorrenza e pluralismo. Ma nella domanda si tende a valorizzare solo ciò che conferma desideri e convinzioni. Notizie divisive, parresìa e attenzione
C’è un destino comune che lega l’uomo dell’anno (Trump, per Time) alla parola dell’anno (“post verità”, per Oxford Dictionaries)? Lo scorso settembre l’Economist descriveva Trump come “uno dei prominenti professionisti della post truth politics”, evidenziando come all’allora candidato sembrasse “non interessare se le sue parole avessero una qualche relazione con la realtà, almeno fintanto che esse fossero idonee a infiammare i suoi elettori”. La post verità è un concetto interessante (diverso, per intenderci, dalle nozioni di verità ascrivibili al relativismo o al pensiero debole) per almeno tre ragioni. La prima è che essa non corrisponde alla mera bugia. Secondo Ralph Keyes, nell’era della post verità non abbiamo più verità e bugie ma una terza categoria di affermazioni ambigue che non sono la verità, ma nemmeno del tutto bugie. La seconda è che dal lato dell’offerta – nel “mercato” di post verità – si nasconde spesso una precisa strategia di ingannevolezza (deception) da parte di chi la propone. La terza – e più trascurata – è che la post verità non cade nel vuoto ma trova, dal lato della domanda, un terreno già fertile di condivisione, di attesa o di disponibilità alla credulità. Alla post verità, in altre parole, sottende una relazione di complicità, di emozione e di reciprocità, tra chi, di volta in volta, parla o ascolta. Anche invertendo i ruoli. Per questo la rete diventa l’ambiente privilegiato della manifestazione della post verità. Non si tratta dunque di una mera bugia, ma piuttosto della verità desiderata, da chi la professa e da chi la accoglie: “Tell me lies but hold me tight”, cantava James Taylor.
Nel recente dibattito sulla post verità – nella rete e in particolare nei social network – il tema più profondo, rimasto ancora sullo sfondo, è proprio quello del rapporto tra libertà di espressione, libertà di attenzione e verità. Questioni che riguardano non solo chi parla e ciò di cui parla, ma le modalità con le quali le fighting words persuadono, emozionano, ottengono consenso, si diffondono, dividono. Se la verità è in potenza condivisibile da tutti, la post verità, sulla spinta emozionale, si nutre di divisioni inconciliabili. Per questo le fake news – come ha ribadito Viera Pejchal nel blog dell’International Network for Hate Studies – finiscono per essere solo il più recente epifenomeno della più ampia categoria dell’hate speech: i discorsi di odio, di discriminazione, di divisione sociale, ancor prima che politica. Le notizie false, artatamente distinte dalle opinioni, assumono rilievo nell’era della post verità proprio perché contribuiscono a creare – cioè a trasformare in reale – una particolare visione del mondo, emotivamente, e quindi indiscutibilmente, contrapposta a un’altra. Eppure uno dei fondamenti del First Amendment della Costituzione degli Stati Uniti metteva la contrapposizione retorica in una relazione necessaria con il conseguimento della verità. Fu il giudice Oliver Holmes nella famosa dissenting opinion sul caso “Abrams v. United States” (1919) a fornire la prima chiara formulazione tra libertà di espressione e verità: “Il miglior test per la verità – scriveva – è il potere di un’opinione di essere selezionata dalla concorrenza sul mercato” ovvero dal “free trade in ideas”.
L’affermazione della libertà di espressione (che, secondo MacCallum, apparirebbe allo stesso tempo sia positiva come atto di libero scambio che negativa in quanto non ostacolata dalla legislazione) veniva così ricondotta alla dottrina del mercato delle idee in relazione al Primo emendamento: il free speech non veniva visto come un fine in sé, ma come lo strumento attraverso il quale conseguire un bene pubblico più grande da tutelare. La verità, appunto. Sarebbe la concorrenza generata dal libero scambio nel mercato delle idee a spingere l’audience ad abbandonare i pre-giudizi e a convergere verso la verità (per tutti). Nella cultura giuridica anglosassone, la marketplace of ideas doctrine non era quindi che il riflesso della tradizione liberale, illuminista e positivista e, in particolare, del valore della libertà di espressione enunciato da J. Milton e da J. S. Mill. Per Mill, solo la confutazione di “idee vive” e rivali – per quanto odiose e false – permette alla verità di emergere e di vincere. Mentre, al contrario, le silenced opinion finirebbero per rendere fragile ogni verità che resti orfana della sua costante sfida. L’unico limite, per Mill, all’esercizio della libertà di espressione, è quello di un danno reale e imminente generato ad altri. E anche questo limite è stato recepito dalla giurisprudenza americana, pur con alcuni paradossi sul concetto di danno (imminent harm) e con esiti assai distanti dagli approcci europei e internazionali (come avvenuto, ad esempio, nella discussione sull’hate speech online nel Cybercrime Treaty).
Naturalmente, resta il dilemma di comprendere se l’opinione “pubblica” che vince nel confronto aperto sia poi la verità o solo l’opinione del più abile rétore. O ancora quella decisa dalla maggioranza dell’audience come prevalente, il che ci porta dritti al legame tra libertà, verità e democrazia. Per gli antichi greci, come ci ha spiegato Foucault, la parresìa (ovvero la libertà o il coraggio di dire la verità) era una caratteristica essenziale della democrazia ateniese. Essa derivava, tuttavia, non dalle abilità dell’arte retorica di adulatori (kolakes) contrapposti, ma dalla competenza degli “esperti” messi a confronto nel disvelare la verità (“la verità ama nascondersi” scriveva Eraclito) e nel farla prevalere, anche quando questa è sgradita al popolo o al sovrano. Ma c’è anche una parresìa negativa – criticata dagli “aristocratici” contro il potere del popolo, che in quell’accezione negativa più che come “democrazia” dovremmo forse tradurre con “populismo” – che comporta il dire tutto ciò che ci passa nella mente senza autocontrollo (l’akolasia di cui si lamenta Isocrate nell’Aeropagitico, al quale esplicitamente si richiama anche Milton). Da qui, scrive Foucault, “l’individuazione di una necessaria antinomia tra parresìa – libertà di parola – e democrazia, inaugurò un lungo e appassionato dibattito” circa “i rapporti pericolosi che sembravano intercorrere tra democrazia, logos, libertà e verità”, quando la parresìa di tutti precipitava nella sua accezione negativa, simile, per Platone, all’anarchia. Per Mill è invece il mercato (delle idee) l’“istituzione” che svolge questo ruolo selettivo e darwiniano di “disvelamento” per il conseguimento del miglior risultato sociale (la verità).
Certe notizie false hanno successo virale perché coloro che le rimbalzano in rete desiderano che siano vere e non esitano a crederle tali (il mascherone di Beppe Grillo a Viareggio - foto LaPresse)
Se per Adam Smith, il libero scambio nel mercato dei beni permetteva automaticamente di conseguirne la più efficiente allocazione, per gli epigoni di J. Stuart Mill lo scambio di opinioni nel mercato delle idee permetteva, altrettanto automaticamente, di conseguire la loro migliore “allocazione” rispetto alla verità. In entrambi gli approcci, “l’equilibrio” finale sarebbe preferito da tutti, rispetto allo status quo ante. Con una perfetta corrispondenza tra efficienza nel senso di Pareto e unanimità (una conclusione poi rivista dai premi Nobel Arrow e Sen, i quali invece hanno discusso la compatibilità tra efficienza paretiana e libertà per tutti gli individui che non abbiano eguali preferenze sui rispettivi domini di scelta). Ma un mercato, per operare bene, deve funzionare pienamente e dotarsi a tal fine di regole che ne preservino i meccanismi. Non solo dal lato dell’offerta – con la concorrenza delle idee (e delle testate giornalistiche cartacee e televisive, secondo la tradizionale nozione di pluralismo esterno) – ma anche dal lato della domanda, che decide ciò che è meritevole di valutazione e, quindi, di produzione. Non vi è alcun dubbio che, quanto a pluralismo esterno e a riduzione dei costi transattivi, la rete costituisca oggi la cornice istituzionale più vicina all’ideal-tipo della concorrenza perfetta e della mano invisibile (sul mouse) smithiana. Essa non solo affianca molte fonti, ma aggiunge contenuti prodotti da ciascun utente, ampliando testimonianze e aggregando quelli che per Hayek sono i patrimoni informativi dispersi che il mercato consente, appunto, di aggregare meglio di ogni altra istituzione.
Dunque la parresìa per tutti e non solo per gli esperti. E da ciò deriva una grande conquista della partecipazione democratica e della disciplina del potere pubblico e privato nel controllo della comunicazione. Ragione per la quale l’accesso alla rete si configura sempre più come un servizio universale, dal quale nessun cittadino debba essere escluso. Non a caso Lawrence Lessig, uno dei padri della visione di una rete libera globale, ha affermato che, con l’architettura di Internet, gli Stati Uniti hanno esportato nel mondo un Primo emendamento “in code” (hardware, software, algoritmi, procedure ecc.) assai più estremo di quello che si trova nella legge. Vista con gli occhi di Mill e di Holmes, significa che la rete, ampliando la libertà di espressione, permette maggiore trasparenza e, di conseguenza, un più efficace disvelamento della verità contro ogni censura o velina. Sul web c’è concorrenza e c’è pluralismo, dal lato dell’offerta di informazioni. In rete, chi cerca trova. Una relazione univoca e lineare, si potrebbe dire, tra espansione della rete e acquisizione della verità. Ma è così anche dal lato della domanda (di informazioni)? E chi trova, cerca? O, meglio, continua a cercare? Il fronte dei dubbiosi è in rapida crescita. Secondo Eugenyi Morozov, ciò che la rete cerca è la domanda di attenzione (ai fini della profilazione del dato per fini commerciali), non quella di verità.
E per Cass Sunstein, ciò che le enormi possibilità offerte dalla rete rischiano di generare è il paradosso di ridurre, assieme ai costi transattivi di ricerca, l’attività stessa di ricerca (plurale e aperta) di informazioni. Fenomeni di autoselezione (o si potrebbe dire di selezione avversa) comportano e accentuano polarizzazione, estremizzazione e self-confirming bias. Una diversità che si autoalimenta e che non dialoga, nel senso milliano-hegeliano, in cerca di una sintesi rivolta alla verità. Sul web cerchiamo la nostra eco e siamo sempre più – direbbe Popper – verificazionisti anziché falsificazionisti: valorizziamo ciò che conferma le nostre convinzioni e trascuriamo ciò che le confuta o falsifica. Il che può condurci a errori sistematici. Se basta solo un evento favorevole a confermare la bontà di una tesi, trascurando i molti eventi contrari che la rendono confutabile, la conoscenza resta prigioniera dello status quo e non procede oltre. Un approccio epistemologico che, secondo filosofi della scienza quali Popper, Kuhn, Lakatos, Feyerabend, ci allontanerebbe inesorabilmente dalla verità. E non solo da quella scientifica. Una società aperta alla conoscenza dovrebbe quindi accettare la sfida della falsificazione e alimentare il dubbio a ogni prova contraria che incontriamo nel nostro cammino.
Da ciò deriva che, nell’era della post verità in rete, l’avvento dell’ambiguità rischi di minare l’ipotesi di quella relazione univoca e lineare tra libertà di espressione (individuale) e verità (sociale) che ha a lungo fondato negli Stati Uniti la preminenza del free-speech. Come ha osservato, tra gli altri, il premio Nobel per l’Economia comportamentale e sperimentale Daniel Kahneman, il destino della libertà di espressione dipende non solo da chi parla ma anche da chi ascolta. Non solo dall’offerta, ma anche dalla domanda nel mercato delle idee. La nostra razionalità limitata ci porta, nella ricerca della verità, a creare scorciatoie mentali basate sulla ripetizione, sul consenso e l’accettabilità sociale della comunità di appartenenza, sia essa materiale o immateriale. Ne deriva la costruzione di una verità personale distorta e a grappoli: finiamo per credere vere tutte le circostanze e le idee che confermano le nostre convinzioni e le nostre emozioni. Una “causazione circolare cumulativa” che ci costringe a percorrere un sentiero senza deviazioni, senza inversioni, senza ripensamenti. Altro che il punto “necessario” di arrivo verso la verità teorizzato da Mill. Alcuni creatori di bufale di successo, autodenunciatisi, hanno dichiarato di farlo quasi come esperimento sociale: certe notizie false hanno successo virale, in poche ore, proprio perché coloro che le rimbalzano in rete desiderano che siano vere e non esitano a crederle tali. Sarebbe la domanda, insomma, non l’offerta informativa a fare di una bufala una notizia.
Ma il successo dipende anche – e qui sta la relazione con l’hate speech – dalla capacità divisiva e partisan della notizia. Una capacità che si rafforza con le emozioni, il dileggio, l’offesa, la discriminazione, l’odio (come dimostrano diversi studi Onu e Unicef sulla rappresentazione degli immigrati e delle minoranze in genere). Gli effetti di scala della rete nella dimensione virale di fake news e hate speech sono poi impressionanti e sconosciuti ai tradizionali media, anche in termini di persistenza. E generano molti e facili ricavi dall’inserzionismo pubblicitario, grazie alle visite alle relative pagine web. Il mercato dell’attenzione genera dunque esiti del tutto diversi dal mercato della verità cui pensava J. S. Mill e il legame tra post verità e profittabilità contribuisce ad accentuare il divario. Anzi, l’economista Jesse Shapiro, che ha studiato la relazione tra “Competition and truth in the market for news”, sostiene che in presenza di distorsioni della domanda, la concorrenza tra fonti informative – ovvero il pluralismo esterno – può incrementare, anziché ridurre, il divario con la verità. Ciò perché competere sull’attenzione induce l’offerta a specializzarsi sulla verità desiderata: così è se vi piace. Per tale ragione Shapiro sembra suggerire la necessità di un pluralismo interno (con la contemporanea rappresentazione di diversi punti di vista da parte di una stessa fonte informativa).
Il problema è che la rete, come ha ben scritto qualche anno fa Zeno-Zencovich, è sì un mezzo di comunicazione di massa, ma non è un media che media nei contenuti e che intenzionalmente fabbrica informazioni da un centro redazionale verso la periferia. Non può quindi autonomamente e automaticamente (pre)occuparsi di offrire visioni plurali di un certo argomento, come potrebbe avvenire, passivamente, per il fruitore di media tradizionali. La rete è la società che parla liberamente alla società, è uno scambio di contenuti many to many e tra pari. E tuttavia, come pure hanno evidenziato alcune recenti indagini Agcom, il fatto nuovo è che gran parte della richiesta di informazioni e di notizie avviene ormai esclusivamente in rete e, in una quota crescente, specie tra le fasce più giovani, sui social network. Significa che la percezione di ricavare comunque “notizie” dall’agorà digitale è elevata e crescente, mentre appare sempre più debole la capacità o la volontà di un esercizio selettivo di contenuti che non sia la rincorsa alla propria eco. E’ vero, infatti, che chi vuole (davvero) cercare, in rete trova, liberamente. Anche la verità. E con ogni probabilità, in modo più efficace e veloce di quanto non abbiano mai permesso i media tradizionali. Ma un numero crescente di indagini empiriche mostra la persistenza in rete – dal lato della domanda di informazioni – di fenomeni di autoselezione, polarizzazione, estremizzazione, distorsioni cognitive ed echo chambers emozionali.
C’è un destino comune che lega l’uomo dell’anno, Donald Trump, alla parola dell’anno, “post verità”? (nella foto, il mascherone di Trump in preparazione per il Carnevale di Viareggio)
E d’altra parte – sottolinea Michele Mezza nel libro Giornalismi in rete – gli algoritmi non sono necessariamente neutrali in questo gioco, ma anzi possono finire endogenamente per rafforzare queste dinamiche, come confermerebbe una recentissima ricerca di Fabrizio Germano e Francesco Sobbrio sugli algorithmic gatekeepers. La discussione in rete è comunque mediata e organizzata dall’algoritmo, dal modo in cui le informazioni sono presentate e rappresentate (framing), associate, collegate, gerarchizzate e percepite. E questa “mediazione” è funzionale a una precisa strategia di valorizzazione commerciale del dato. Da qui nasce il dibattito, ancora aperto, sul divorzio tra attenzione e verità e sulla natura (di organizzazione) editoriale dei motori di ricerca e dei social network. I benefici effetti attesi dalla concorrenza nel mercato delle idee sembrano basarsi sull’assunto di una domanda fatta di “consumatori” razionali i quali, indipendentemente dal proprio status quo e dai propri desideri ed emozioni, o dai vincoli degli algoritmi, siano onestamente orientati alla ricerca e all’accettazione di una verità diversa da quella preferita. Ma se questa ipotesi viene meno, la logica di mercato conduce a esiti diversi. Se, infatti, coloro che – secondo Mill – dovrebbero domandare verità, chiedono in realtà altro, il mercato offrirà loro questo “altro”, al posto della verità. Con buona pace della selezione darwiniana della verità nel mercato delle idee. Con il corollario che se la libertà di espressione divorziasse dalla ricerca della verità, anche il controllo contro gli abusi del potere o la difesa della libertà negativa smarrirebbero la bussola: il potere, sia pubblico che privato, avrebbe sempre torto o ragione a prescindere, in base alle emozioni suscitate e non agli atti concreti che saremmo chiamati, di volta in volta, a giudicare.
E’ questo il dilemma della post verità in rete. Un dilemma che di certo non riguarda gli esperti amanti della verità, di cui parlava Foucault, o chi ha la pazienza di ricercare una verità che non desidera e di confrontarsi con un mondo estraneo che non gli somiglia. Ma per tutti gli altri? Secondo la lettura che ne dà Foucault, la parresìa populista ateniese – contrapposta alla parresìa dell’élite degli esperti – aveva portato Isocrate a denunciare “gli oratori corrotti, che sono ben accetti dal popolo” in quanto “dicono solo quello che il popolo desidera sentire” rispetto “agli interessi migliori della città”, declamati invece da chi avrebbe il coraggio di dire verità scomode, ma necessarie. Un approccio, come si vede, inevitabilmente paternalista e pedagogico verso il popolo. Ancora più chiaro Platone che nella Repubblica denuncia la tentazione della post verità ante litteram, laddove ritiene, sempre con le parole di Foucault, che “se tutti seguono le proprie opinioni, volontà o desideri, allora si creano nella città tante costituzioni, tante piccole città autonome, quanti sono i cittadini”. In realtà, come ha scritto qualche anno fa Paul Seabright, lo straordinario esperimento dell’evoluzione umana racconta di una storia diversa, nella relazione tra democrazia e conoscenza, e cioè della costruzione di una company of strangers. Di relazioni di fiducia, curiosità, apertura nei confronti di chi non si conosce ancora. Dello straniero. E il mercato come istituzione del libero scambio tra anonimi si è basato proprio sulla relazione tra libertà e fiducia, su strette di mano tra estranei, come scriveva Adam Smith.
Il punto è allora comprendere se davvero l’evoluzione della rete smetterà di somigliare, come taluni paventano, a quella della società pre-digitale, frammentandosi in una miriade di piccole comunità chiuse, rivali, divisive, come quelle criticate da Platone, come effetto della parresìa populista nell’agorà digitale. O se invece, la rete troverà autonomamente, al suo interno, forme evolutive e autonome di capacità critica e selettiva dei contenuti, libere dall’eco emozionale, anche grazie alla sola esperienza degli utenti e al passaparola. In questo secondo scenario, basterebbe il business as usual e sarebbe vero che, come ha scritto Ankhi Das, “best antidote to fake news and hate speech is more speech”. Non incoraggiano però i risultati di una ricerca empirica condotta in Italia da Sabatini e Sarracino, i quali concludono che l’uso intensivo di social network riduce la fiducia nell’altro e impoverisce il capitale sociale. In questo quadro, il nuovo “straniero” diverrebbe presto colui che si evita (proprio) perché lo si conosce, il bàrbaros, colui che non sa parlare la nostra lingua e che non condivide i nostri valori. Colui che non va mai invitato ai nostri simposi digitali e con il quale, anzi, non si deve affatto discutere. Se ciò davvero avvenisse, sarebbe senza dubbio una seria smentita per chi vede nella rete un nuovo strumento mediatico di libera informazione per il conseguimento della verità. D’altra parte, se si spezzasse in rete lo storico legame fondativo tra free speech e verità, si finirebbe poi per svuotare anche molta parte del fondamento retorico del free speech come strumento di pluralismo sociale.
In questo quadro la difesa della libertà di espressione finirebbe per assumere un valore assoluto individuale in sé, come capacità nel senso di Sen, ma del tutto slegato dagli esiti sociali in termini di affermazione della verità e di marketplace of ideas. Il che, a sua volta, – e qui sta la fondamentale differenza tra approccio europeo e statunitense sull’hate speech – porterebbe quel diritto a doversi calibrare, in una dimensione non più gerarchica ma orizzontale, con altri diritti e doveri quali, tra tutti, il rispetto della dignità della persona da ogni forma di discriminazione. Al tempo stesso, il pluralismo e la ricerca della verità in rete, non essendo più automatico prodotto del free speech nel mercato delle idee, richiederebbero altri e nuovi strumenti di promozione e tutela, tutti da indagare, tanto nelle forme quanto negli effetti attesi. Tanto nella rete (ad esempio iniziando il confronto con tutti gli stakeholders e affidando ad autorità terze la verifica delle annunciate forme di autoregolazione) quanto fuori da essa (ad esempio attraverso il rilancio del servizio pubblico televisivo come pluralismo interno sganciato da logiche di mercato e di un giornalismo, anche investigativo, di qualità, dotato di risorse economiche adeguate). Ed è questo il senso e, in qualche modo l’urgenza, del dibattito sulla post verità in rete, al di là delle polemiche politiche o della banale contrapposizione tra favorevoli e contrari alla rete o ai cosiddetti Over the Top.
D’altra parte – come hanno rilevato Michele Mezza e Giovanni Pitruzzella – se a introdurre filtri e censure in rete è poi il privato, con filtering, zoning o altri interventi sui misteriosi algoritmi (come annunciato ad esempio da Facebook) non si comprende per quale ragione decisioni private dovrebbero offrire maggiori garanzie di un dibattito pubblico aperto sul tema. Anzi, proprio la circostanza che siano i motori di ricerca e i social network dominanti a porre il tema, testimonia semmai l’inaggirabilità della questione delle garanzie nelle nuove comunicazioni. Per tutti. Non a caso, a proposito del mercato delle idee e del Primo emendamento, un altro premio Nobel per l’Economia, Ronald Coase, si chiedeva – già nei lontani anni Settanta – perché lo stato si preoccupi di tutelare il consumatore sul mercato dei beni, ad esempio dalla pubblicità ingannevole, e invece poi, nel mercato delle idee, lasci il cittadino solo rispetto alla selezione di informazioni non veritiere che riguardino la dimensione della sua vita civile e, in ultima analisi, la capacità deliberativa posta a fondamento delle libere scelte democratiche. Il cittadino-consumatore merita, secondo Coase, un trattamento analogo nei due mercati: tutele o piena autonomia nella ricerca di informazioni complete per poter scegliere liberamente.
La domanda posta da Coase non ha avuto risposte. Ma il diverso approccio pubblico nel mercato dei beni rispetto a quello delle idee costituisce un’insanabile contraddizione che – ci piaccia o meno – oggi, nell’epoca della cittadinanza digitale, siamo chiamati ad affrontare e, con buona volontà di tutti, a tentar di risolvere. Sfortunatamente, ogni discussione sul pluralismo e sulla rete torna a dividere il campo, secondo un vecchio copione, e a generare equivoci. Come il ricorrente timore di interventi censori, che certamente vanno combattuti. Un timore, tuttavia, che se consente a chi lo esprime – nel 2017 come nel IV secolo a.C. – di ottenere facile consenso, lascia intatti i dilemmi e le contraddizioni di fondo. Ma se consentiamo a questi equivoci di chiudere il dibattito prima che cominci, anche il discutere della rete diventerà presto un capitolo, nemmeno tanto glorioso, del racconto della post verità.
Antonio Nicita insegna Politica economica all’Università La Sapienza di Roma. Dal 2014 è Commissario Agcom.
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